Il rapporto mondiale “L’atteggiamento verso la demenza” racconta come lo stigma verso questo tipo di disturbo impedisca di chiedere informazioni, supporto e assistenza medica
A livello globale c’è un’allarmante mancanza di conoscenza sulla demenza. Una vasta indagine ha rilevato che due persone su 3 sono convinte che la demenza sia una normale conseguenza dell’invecchiamento. È quanto emerge dal Rapporto Mondiale Alzheimer 2019 ‘L’atteggiamento verso la demenza’, pubblicato in occasione della XXVI Giornata Mondiale Alzheimer che si celebra oggi.
L’indagine, che ha coinvolto 70 mila persone in 155 Paesi del mondo, ha analizzato le convinzioni e i comportamenti diffusi nell’opinione pubblica nei confronti della malattia di Alzheimer e di tutti gli altri tipi di demenza. Dalla ricerca si evince come lo stigma verso la demenza impedisce alle persone di chiedere informazioni, supporto e assistenza medica che potrebbero migliorare notevolmente la durata e la qualità della vita per quella che è, a livello globale, una delle cause di morte a più rapida diffusione.
Secondo le previsioni, il numero delle persone con demenza è destinato a triplicare rispetto ai 50 milioni attuali, raggiungendo 152 milioni nel 2050. Sul fronte economico, il costo annuo della demenza supera attualmente i mille miliardi di dollari, cifra destinata a raddoppiare entro il 2030. La demenza, poi, è la quinta principale causa di morte a livello globale (dato del 2016, mente nel 2000 era la quattordicesima). In Italia la stima attuale delle persone con demenza è di 1.241.000.
Il Rapporto ‘L’atteggiamento verso la demenza’sottolinea quali siano le barriere principali alla ricerca di aiuto, consigli e assistenza: il 48% degli intervistati è convinto che la memoria di una persona con demenza non migliorerà mai, neppure con interventi medici, mentre 1 su 4 crede che non si possa fare nulla per prevenirla.
“Dal Rapporto – commenta Gabriella Salvini Porro, presidente Federazione Alzheimer Italia – emergono dati a dir poco allarmanti, che riguardano tutto il mondo, compresa l’Italia e non solo alcune zone. Certo, gli atteggiamenti variano a seconda delle fasce regionali, socioeconomiche e culturali, ma è indubbio che alcune convinzioni errate sulla demenza siano ancora radicate in maniera importante anche nella nostra opinione pubblica. Questa è l’unità di misura dello stigma presente nelle nostre comunità, che descrive anche la sfida che ci attende nel perseguire la lotta”.
E ancora: “Pensiamo per esempio al 60% degli intervistati che ritiene corretto non coinvolgere le persone con demenza: si tratta di discriminazione con una loro individualità e un loro vissuto costruito lungo una vita intera, al di la’ dell’etichetta della diagnosi. Un dato positivo e’ che almeno il 50% degli intervistati e’ convinto che lo stile di vita possa influire sulla riduzione del rischio di sviluppare una forma di demenza. Per aumentare questa percentuale – conclude – dobbiamo agire su tutti i fronti: sociale, assistenziale e medico”.
Dal Rapporto emerge, inoltre, come circa il 50% delle persone con demenza intervistate si senta ignorata dal personale sanitario (medici e infermieri), mentre il 33% crede che, se soffrisse di demenza, il personale medico non gli darebbe ascolto. Un dato interessante è che il 95% dei partecipanti ritiene che potrebbe sviluppare una demenza nel corso della sua vita e più di due terzi delle persone (69,3%) si sottoporrebbero a un test genetico per conoscere il loro rischio di svilupparla (anche se finora non esiste un trattamento in grado di modificare il decorso della malattia). Ciò significa che il timore di soffrire di demenza è diffuso a livello globale, ma la malattia è ancora scarsamente compresa.
Altro dato che colpisce è che anche il 62% del personale sanitario pensa ancora che la demenza sia conseguenza del normale invecchiamento. “Lo stigma – commenta Paola Barbarino, amministratore delegato di Adi – è il più grande limite alla possibilità delle persone di migliorare sensibilmente il loro modo di convivere con la demenza. A livello individuale, lo stigma può minare gli obiettivi esistenziali e ridurre la partecipazione ad attività sociali, peggiorando il benessere e la qualità della vita. A livello di società, lo stigma strutturale e la discriminazione possono influire sull’entita’ dei fondi da stanziare per la cura e l’assistenza. Auspichiamo – conclude – che i risultati ottenuti da questa ricerca possano dare il via a una riforma e a un cambiamento globale positivo”.