Principale Politica Diritti & Lavoro Chi ha paura di Greta Thunberg?  

Chi ha paura di Greta Thunberg?  

Annotazioni intorno all’intervento di Greta Thunberg al recente summit dell’Onu sull’emergenza climatica 

di Andrea Ermano 

I dati politici della settimana sono tre, ma di Brexit non parleremo, ancorché la vicenda britannica confermi quanto queste nuove ondate di nazional-sovranismo – di cui il premier Boris Johnson costituisce un esempio abbastanza rappresentativo – vadano contro i fondamenti più antichi e sperimentati della democrazia parlamentare europea, baluardo contro la tirannide.

Nemmeno sul pronunciamento della Consulta a riguardo del suicidio assistito – il secondo fatto politico della settimana – vogliamo dilungarci. Ci limitiamo a salutare il progresso civile che si realizza per l’Italia con la limitazione dell’art. 580, una legge risalente al famigerato ventennio fascista. È stato affermato il diritto costituzionale al rifiuto che ciascuna/o deve poter opporre all’accanimento terapeutico, senza aprire le porte allo anything goes dell’ideologia neoliberista.

Il terzo tema – di gran lunga il più notevole di tutti, quanto meno a giudizio di chi scrive – coincide con il discorso tenuto dalla giovane attivista svedese Greta Thunberg alla conferenza mondiale sul clima promossa dall’ONU a New York. 

Il testo di questo discorso è riportato qui sopra per ampi stralci nella rubrica di apertura Ipse Dixit. Sui contenuti possiamo dichiararci completamente d’accordo con Greta, finché parla di misure orrendamente urgenti per la riduzione del CO2.

 Un punto critico sta nell’altra parte del discorso, quella che giunge alla condanna pubblica – che più pubblica non potrebbe essere – verso i responsabili del “tradimento” contro l’umanità e le giovani generazioni nella terribile prospettiva di “un’estinzione di massa” in conseguenza del surriscaldamento climatico.

 «Ci state tradendo», ha esclamato Greta: «Ma i giovani stanno iniziando a capire il vostro tradimento. Lo sguardo di tutte le generazioni future è puntato su di voi».

Chi sono questi “traditori”?

Greta si riferisce ai “politici” e ai “governanti”. Del resto, è abbastanza chiaro che chi parla a un summit dell’ONU si rivolga ai leader mondiali, che di norma non sono dei ragazzini. Ma a costoro, che ci governano, Greta lancia altresì un minaccioso avvertimento: «Il mio messaggio è che vi teniamo d’occhio». E ancora: «Dovrei essere a scuola, dall’altra parte dell’oceano. E invece voi avete chiesto a noi ragazzi di venire qui a cercare la speranza», è l’esordio. Quelli che ci governano vengono accusati di “immaturità” in quanto incapaci di “dire le cose come stanno”.

Quale ironia! Il mondo dev’essere uscito dai cardini, se una ragazzina si comporta come una leader mondiale e i leader mondiali come dei ragazzini: «Come osate far finta che questa situazione possa essere risolta con l’economia di sempre, con il business as usual, e con le tecnologie utilizzate finora?»

Ora, il “tradimento” di cui parla Greta entra in un rapporto di attrazione/repul­sione con quanto scrive Edoardo Crisafulli nel suo saggio su “Dio, Cesare e l’Islam”, di cui pubblichiamo qui sotto la seconda puntata: «Ogni Santa Causa ha i suoi traditori», osserva Crisafulli: «chissà perché spunta sempre alle tue spalle uno più zelota di te (qualcuno più puro, impaziente di epurarti, direbbe Nenni)».

Pietro Nenni – che ne aveva viste di tragedie nel “secolo breve” in cui l’Europa si è suicidata due volte, provocando due guerre mondiali e almeno cento milioni di morti – aveva compreso molto bene come le opposte categorie della “purezza” e del “tradimento” – versioni secolarizzate della “vera fede” e della “apostasia” – possono fare deragliare il treno della storia umana.

In nome di una Santa Causa ciò che è “Santo” si trasforma in “Sacrosanto” e quindi in “Sacro”, ma c’è poco da stare allegri quando la politica mondiale si mescola con il “Sacro”, perché per dirla carduccianamente, «Quando porge la man Cesare a Piero, / Da quella stretta sangue umano stilla». 

Una differenza davvero molto importante riguarda il senso del movimento tra “Sacro” e “Santo”. Mi spiego: “santo” si può considerare il tentativo umano di corrispondere alla legge morale, mentre “sacro” è – per dirla con Giorgio Agamben – ciò che viene sottratto all’uso comune: i sacri confini della patria che uno non può attraversare a suo piacimento, il sacro calice della messa che uno non può usare per bere birra al bar, la dignità intangibile della persona umana che non può essere mai considerata solo come un mezzo, ma sempre anche come un fine del nostro agire, eccetera.

Il senso buono del movimento è, direi, quello “dal sacro al santo”, quello che cioè tende all’osservanza che ciascuno cerca con coerenza di praticare verso ciò che gli sia “sacro”.

 Oltre modo rischioso, invece, è il movimento inverso, quello che va “dal santo al sacro”. Quando entra in campo il “sacro”, quando si iniziano a tracciare i “sacri confini”, la nostra cultura ci avverte: lì c’è un pericolo. Non a caso alcuni celebri fratricidi dell’Occidente sono associati al superamento del “sacro” confine (Romolo e Remo) e, in generale, alla dimensione del “sacrificio” (Caino e Abele). Passare dal “santo” al “sacro” equivale a tracciare una linea perentoria, che non può essere valicata senza conseguenze.

Greta nel suo J’accuse fa risuonare la minaccia di una condanna eterna: «Se ci abbandonerete nel pericolo, non vi perdoneremo mai. Non vi lasceremo andare via così. Proprio qui e proprio ora noi tracciamo la linea: il mondo si sta svegliando e, vi piaccia o no, il cambiamento sta arrivando».

È prevedibile che le giovani generazioni intensificheranno la contestazione contro i “politici” e i “governanti”. Fino a che punto? Assisteremo “solo” a un nuovo ’68, stavolta ecologista, con manifestazioni di dissenso e protesta generalizzate? Oppure insorgeranno poi anche fenomeni di radicalizzazione e di estremismo con quel che ne consegue? E le istituzioni reggeranno all’onda d’urto, prese in mezzo tra le proteste per il surriscaldamento e le migrazioni che esso sta già provocando e che ancora provocherà?

Greta ha ragione da vendere quando punta il dito sull’inanità delle classi dirigenti nel governo della globalizzazione.

La nostra situazione globale assomiglia a quella della Russia del 1917, dopo la Rivoluzione di febbraio. Allora, la gran parte delle masse popolari russe voleva che la guerra finisse. Ma i nuovi governanti, incluso il compagno Aleksandr Fëdorovic Kerenskij, non sapevano abbastanza come fare la pace e nemmeno la volevano al punto tale da essere pronti ad assumere le decisioni del caso. Le operazioni militari proseguirono blandamente con velleitarie “offensive” che si sgonfiavano a causa delle diserzioni di massa. E fu così che il processo di democratizzazione dell’ex impero zarista si trasformò repentinamente nella “Presa del Palazzo d’Inverno” dando inizio, è proprio il caso di dirlo, a tutta un’altra storia: la storia di “un dio che è fallito”, scriverà Ignazio Silone.

 Oggi l’assunzione di misure sul CO2 è assolutamente necessaria. Ma non potrà procedere se non considerando molto attentamente la situazione sociale. Perché ogni tentazione di scaricare i costi delle politiche climatiche sulle masse popolari sarà inefficace e per di più esposta a crisi di rigetto di tipo “trumpiano”. O eco-socialismo, o barbarie, si potrebbe dire parafrasando Rosa Luxemburg: il cambiamento ecologista dovrà accompagnarsi con una profonda riforma sociale e, davvero, non potrà procedere nella logica del business as usual.

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