Principale Politica Diritti & Lavoro La riduzione del numero dei parlamentari. Parte II

La riduzione del numero dei parlamentari. Parte II

La riduzione del numero dei parlamentari nell’attuale bicameralismo paritario.

I critici della riforma hanno ragione su un punto: la Relazione della Commissione Bozzi, del gennaio 1985, affermava l’esigenza di superare il bicameralismo paritario, nel senso di differenziare le attribuzioni della Camera e del Senato e di non coinvolgere entrambi i Rami del Parlamento nel procedimento legislativo, fatta eccezione per gli atti di maggiore rilevanza (disegni di legge costituzionale, eccetera). Come si è visto dal sommario excursus storico, richiamato nel paragrafo precedente, tutti i progetti di riforma tentati nelle successive legislature erano, in qualche misura, rivolti al medesimo obiettivo della differenziazione delle attribuzioni di ciascuna Camera. Non a caso in molti progetti il Senato veniva definito “federale”; con ciò stesso diventava l’assemblea direttamente rappresentativa del sistema delle Regioni e delle autonomie locali.

Calibrare attribuzioni e competenze delle due Camere, tuttavia, non è cosa semplice, né facile. Questa scelta è immediatamente connessa alla disciplina del procedimento legislativo: ci saranno ipotesi in cui entrambe le Camere sono chiamate a concorrere all’iter legislativo perché vengono in considerazione atti di particolare rilevanza; ipotesi in cui l’attività legislativa è di competenza della sola Camera dei deputati, quale Organo di rappresentanza generale; ipotesi in cui il Senato, in relazione alle materie trattate, può chiedere di pronunciarsi comunque, sia pure in modo non vincolante, su progetti di legge di competenza della Camera; ipotesi in cui, trattandosi, ad esempio, di materie quali l’ordinamento delle autonomie locali, spetta soltanto al Senato legiferare. Passare da questo schema concettuale alle disposizioni normative che dovrebbero codificarlo, è tutt’altro che agevole. Si pensi alle infinite polemiche provocate dalla proposta di riformulazione dell’articolo 70 della Costituzione, contenuta nel progetto di legge costituzionale “Renzi – Boschi” del 2016. Di fronte a tante ipotesi differenziate di procedimento legislativo, ciascuna suscettibile di ulteriori varianti, tanto il tecnico del diritto, quanto il comune cittadino, finiscono, per ragioni diverse, per provare sentimenti di fastidio e di smarrimento. Si ha la sensazione che una riforma così concepita complichi le procedure, invece di semplificarle.

Il passaggio al bicameralismo differenziato sconta una ulteriore difficoltà. Alcune forze politiche – e tra queste si può citare, senza timore di smentite, il Partito Democratico – ritengono che il sistema bicamerale non sia più attuale, né più rispondente all’esigenza di assumere decisioni in tempi rapidi. Di conseguenza, sono, tendenzialmente favorevoli a che ci sia una sola Assemblea parlamentare rappresentativa, la Camera dei deputati, con conseguente soppressione del Senato. Considerato poco più di un residuo storico.

Il progetto di legge costituzionale “Renzi – Boschi” del 2016 tendeva, appunto, a ridimensionare l’importanza del Senato, senza però arrivare ad una sua formale soppressione.

Tutte le questioni sollevate sono tuttora molto controverse e non si vede all’orizzonte alcuna possibilità che si formi un orientamento largamente maggioritario fra le forze politiche.

Nelle condizioni descritte, la riforma costituzionale del 2019 ha l’immenso pregio della semplicità. Consegue l’obiettivo di ridurre il numero dei parlamentari, ma lascia impregiudicata l’eventualità che, in futuro, possa essere introdotta una nuova disciplina delle attribuzioni delle due Camere. Il riformatore costituzionale del 2019 procede per piccoli passi ed invita quanti hanno progetti riformatori più ambiziosi a continuare a studiare.

  1. 4. Conservatori e innovatori.

Noi non pensiamo che quanti hanno smania di innovare abbiano, per principio, ragione. In tempi non troppo lontani, l’amore del “nuovo” fine a sé stesso ha caratterizzato il movimento dei “Futuristi” ed il futurismo, come sappiamo, si è trovato in perfetta consonanza con il fascismo. Piero Gobetti, il quale era un liberale e non un conservatore, ha descritto in poche righe un vizio di fondo della mentalità politica italiana: «Si potrebbe cercare, senza intenzione riposta d’arguzia, la più grave deficienza del liberalismo italiano nella lunga mancanza di un partito politico francamente conservatore. Senza conservatori e senza rivoluzionari, l’Italia è diventata la patria naturale del costume demagogico. Di fronte al pericolo del clericalismo, ora reale ora immaginato da fantasie garibaldine, anche i retrivi si sono ridotti ad amoreggiare col radicalismo» (3).

La proposta di ridurre il numero dei membri del Parlamento italiano esercita, da sempre, su di noi il fascino delle buone cause. In questo caso, la buona causa coincide con il dovere di contrastare la cattiva politica.

La cattiva politica si riconosce subito per le seguenti caratteristiche. La prima è che tende ad aumentare il più possibile il numero di persone che “vivono” di politica, mantenute dal pubblico denaro. Non si fa riferimento esclusivamente ai titolari di funzioni pubbliche elettive, ma anche ai politici non più rieletti e temporaneamente “parcheggiati” nei consigli di amministrazione di Enti, Aziende, Fondazioni culturali, Istituti di credito, eccetera, per nomina politica. A costoro si aggiunge l’esercito dei collaboratori dei politici, dei funzionari di partito, degli addetti stampa e, in genere, dei giornalisti che lavorano in organi di informazione di partito, oppure formalmente indipendenti, ma, nella sostanza, a servizio di un partito. La seconda caratteristica è la tendenza a moltiplicare il numero degli “Enti”: livelli di governo territoriale, nuovi enti pubblici territoriali, organi di decentramento, organi di raccordo fra più enti diversi. Qui si contraddice una regola che, in filosofia, è nota come “Rasoio di Ockham” (italianizzato in Occam): “Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem“, ossia non bisogna aumentare il numero degli enti, se non quando ciò sia strettamente necessario. Guglielmo di Ockham, eminente filosofo e frate francescano inglese, visse a cavallo tra la fine del tredicesimo e la prima metà del quattordicesimo secolo. La formula del “Rasoio di Ockham”, trasportata dalla filosofia al diritto pubblico, è una regola basilare di buona amministrazione. Chi vuole più “Enti” lo fa per creare più posti nei quali sistemare persone (siano colleghi di partito, o riconducibili ad una clientela personale), sempre a spese del pubblico denaro, ossia della collettività.

I politici di professione, per difendere sé stessi, sono soliti liquidare come manifestazione di “antipolitica” tutte le critiche nei loro confronti. Sono abilissimi nel ricondurre a nobili esigenze ideali le peggiori pratiche. Nobile ideale è quello di garantire adeguata rappresentanza istituzionale ad ogni comunità territoriale.

Si parte dal presupposto che più alto sia il numero dei rappresentanti, maggiore sia la capacità rappresentativa. Peccato non si tenga conto che, per rappresentare una medesima comunità territoriale, vengano in considerazione: consiglieri comunali, consiglieri regionali, parlamentari nazionali (deputati e senatori), parlamentari europei. Alcuni si sentono orfani dei consiglieri provinciali, da quando questi ultimi non sono più eletti direttamente dal Corpo elettorale. A ben vedere, tanti rappresentanti, rispettivamente eletti ai diversi livelli di governo territoriale, non aumentano la complessiva capacità rappresentativa. Al contrario, possono determinare una situazione di confusione istituzionale, in cui non sia più chiaro a quale assemblea rappresentativa competa un determinato adempimento ed i diversi livelli di governo territoriale si rimpallino, fra loro, le responsabilità per quanto non è stato fatto, o per quanto dovrebbe farsi con carattere d’urgenza.

Altro nobile ideale, continuamente evocato, è quello della “partecipazione democratica”. Libertà è partecipazione, cantava Giorgio Gaber nel 1972. Ci permettiamo di obiettare che c’è una parolina magica la quale consente di distinguere ciò che davvero è nobile, da quanto nobile non è. Questa parolina è: “gratis“. Ad esempio, il volontariato è nobile cosa nei limiti in cui è dono gratuito agli altri del proprio impegno e del proprio tempo. Allo stesso modo, la politica è attività nobile quando è fatta volontariamente, per passione ideale e per amore nei confronti della comunità sociale della quale si fa parte. A noi piace aggiungere: per amore della propria Patria.

Ovviamente, una cosa è l’interesse per la politica che dovrebbe contraddistinguere ogni buon cittadino, altra cosa è la scelta di candidarsi a cariche elettive, o amministrative, o di governo. In questo secondo caso, c’è il salto di qualità, perché ci si carica di responsabilità istituzionali. Si passa dalla dimensione dei comuni cittadini a quella dei “decisori politici”.

Nell’opinione pubblica italiana dei giorni nostri c’è la molto radicata convinzione che la rappresentanza parlamentare, fatte sempre le dovute eccezioni e considerata nella sua media, sia di mediocre qualità.

La qualità della rappresentanza non è frutto del caso. Dipende essenzialmente da due fattori: a) la legge elettorale vigente, in forza della quale vengono selezionati deputati e senatori; b) le caratteristiche della forza politica che esprime le candidature per la Camera e per il Senato.

Con riferimento alla storia dell’Italia repubblicana, si possono distinguere quattro diversi periodi, nei quali la selezione della rappresentanza parlamentare è stata determinata da quattro differenti leggi elettorali.

Il primo periodo comprende le prime undici legislature. Una legge proporzionale, senza previsione di soglia di sbarramento, e con la facoltà degli elettori di esprimere preferenze, si è tradotta in un sistema multipartitico, nel quale tutte le principali correnti politico-ideali avevano rappresentanza parlamentare.

Il secondo periodo comprende le legislature dalla dodicesima alla quattordicesima. A partire dalle elezioni politiche del 27 marzo 1994, ha trovato applicazione la legge elettorale 4 agosto 1993, n. 277, (legata al nome di Sergio Mattarella). Ai sensi di questa nuova normativa, il 75 per cento dei seggi della Camera dei deputati erano attribuiti in altrettanti collegi uninominali, con sistema maggioritario. Una legge elettorale dello stesso tenore disciplinava le elezioni del Senato. Il collegio uninominale deriva dall’esperienza storica inglese. Ogni territorio ha il suo rappresentante istituzionale assicurato e questo ruolo va al candidato più votato nel collegio di riferimento, con esclusione di tutti gli altri. Per avere più probabilità di vincere nei singoli collegi, più partiti hanno interesse a coalizzarsi fra loro per esprimere candidati comuni nei collegi. Il sistema politico tende così, naturalmente, ad assumere un carattere “bipolare”, nel senso che si costituiscono due grandi alleanze politiche, fra loro antagoniste ed alternative. Nella concreta esperienza storica italiana, il bipolarismo si è risolto nell’alternativa tra uno schieramento di centrodestra ed uno schieramento di centrosinistra.

In teoria, nulla impediva che a coalizzarsi fossero gli stessi partiti “storici” che erano stati protagonisti delle prime undici legislature repubblicane. Nella realtà, il sistema politico italiano risultò completamente sconvolto dal fatto che il mutamento della legge elettorale si accompagnò alla scomparsa dei partiti tradizionali e all’affermazione di soggetti politici nuovi.

I partiti che in precedenza erano stati alleati nella formula del “pentapartito” ed avevano condiviso la responsabilità del governo, DC, PSI, PSDI, PRI e PLI, decisero, l’uno dopo l’altro, il proprio auto-scioglimento, anche perché travolti dalle inchieste giudiziarie del periodo cosiddetto di “Tangentopoli”. Il Partito Comunista, dopo l’abbattimento del muro di Berlino nel 1989 ed il successivo crollo dell’Unione Sovietica, decise di cambiare nome e nel 1991 divenne il “Partito Democratico della Sinistra”, in sigla PDS, con Segretario politico Achille Occhetto.

Nella parte settentrionale del Paese si affermò La Lega Nord di Umberto Bossi, la quale già nelle elezioni politiche del 5-6 aprile 1992, le ultime con la legge elettorale proporzionale, elesse 55 deputati e 25 senatori, mentre cinque anni prima, nelle elezioni del giugno 1987, la Lega Lombarda aveva ottenuto soltanto due rappresentanti in Parlamento (un deputato e un senatore). La Lega Nord si caratterizzò allora come partito di protesta contro il malaffare politico, in perfetta sintonia con le inchieste giudiziarie condotte dalla magistratura. Nel contempo, aveva le caratteristiche di un partito “antisistema”; infatti puntava, addirittura, alla secessione di una parte del territorio nazionale, la “Padania”, in radicale contrasto con il principio costituzionale secondo cui la Repubblica è «una e indivisibile» (articolo 5 della Costituzione, inserito tra i Princìpi fondamentali).

La maggior parte dell’elettorato che prima votava per la Democrazia Cristiana, per il Partito Socialista e per i Partititi laici (PSDI, PRI, PLI) ebbe come suo nuovo riferimento politico il movimento di Forza Italia, fondato dall’imprenditore Silvio Berlusconi. Anche la destra propriamente detta ritenne opportuno modificare la propria offerta politica. Così, nelle elezioni del 1994, le prime con la nuova legge elettorale maggioritaria, si presentò con la denominazione di “Alleanza Nazionale”. Nel gennaio del 1995, fu deciso lo scioglimento del Movimento Sociale italiano – Destra nazionale e restò in campo la nuova Alleanza Nazionale, guidata da Gianfranco Fini.

Ci fu un tentativo di resistenza da parte di quel mondo politico che in precedenza si era riconosciuto nella Democrazia Cristiana. Così, nelle elezioni del 1994, il Partito Popolare italiano, guidato da Mino Martinazzoli, ed il “Patto Segni”, del quale era leader Mario Segni, si presentarono alleati nei collegi uninominali, con la denominazione di “Patto per l’Italia”; scelsero una posizione centrista, senza alleanze né a destra, né a sinistra. Questo cartello elettorale conseguì, sul piano nazionale, sei milioni e 19 mila voti (15,63 % del totale dei voti validi), ma, per la logica stessa del sistema maggioritario di collegio, ottenne soltanto quattro seggi in tutta Italia. Ci riferiamo alle elezioni della Camera. Con il secondo voto, per la quota proporzionale, il PPI conseguì 29 seggi ed il Patto Segni 13 seggi. Si ebbe così la conferma che la scelta di non entrare a far parte di alleanze più ampie, risultò fortemente penalizzante in termini di rappresentanza parlamentare.

Il sommarsi di questi due fenomeni, passaggio ad una legge elettorale prevalentemente maggioritaria e sostituzione dei precedenti partititi “storici” con nuovi soggetti politici, ebbe effetti tanto rilevanti che, nel linguaggio giornalistico, si affermò la tesi che nel 1994 aveva avuto inizio una “seconda Repubblica”.

I partiti politici nati in Italia negli anni Novanta del ventesimo secolo hanno subito assunto caratteristiche molto diverse rispetto ai partiti costituitisi negli anni 1943-1945, dopo la caduta del fascismo.

Anche nella cosiddetta “prima Repubblica”, in tutti i partiti c’erano personalità decisamente dominanti. Facciamo degli esempi. Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro, nella Democrazia Cristiana. Palmiro Togliatti, Enrico Berlinguer, nel Partito Comunista. Pietro Nenni, Bettino Craxi, nel Partito Socialista. Giuseppe Saragat nel Partito Socialista Democratico. Giovanni Malagodi, nel Partito Liberale. Ugo La Malfa nel Partito Repubblicano. Giorgio Almirante nel Movimento Sociale italiano – Destra Nazionale. Questi uomini politici, pur eminenti, incontravano comunque dei limiti proprio perché inseriti in veri partiti politici.

Ogni partito aveva una propria tradizione storica, una quasi sempre vivace dialettica interna, esprimeva altri dirigenti politici e rappresentanti istituzionali, molti dei quali di notevole livello qualitativo. Ogni partito si configurava come un “soggetto collettivo”, un’intelligenza collettiva. Il modello di partito restava quello che aveva avuto le proprie origini nell’Inghilterra del diciottesimo secolo, con la dialettica fra Tories e Whigs, e che poi si era affermato ovunque nel diciannovesimo secolo. Ogni partito aveva una forte caratterizzazione ideale; anzi, sarebbe più esatto scrivere “ideologica”. Ciò comportava che le campagne di tesseramento e le adesioni di nuovi iscritti non dipendevano esclusivamente dalla linea politica attuale del partito; ma una quantità significativa di persone decidevano di iscriversi per il fatto di condividere una data concezione ideale, una determinata visione della storia. Gli organismi direttivi dei partiti avevano certamente un potere di indirizzo della linea politica; ma questa doveva poi essere confermata e legittimata da assemblee congressuali, prima a tutti i livelli territoriali, poi in ambito nazionale. In questo modo, dirigenti, militanti e semplici iscritti avevano l’impressione di dare un proprio contributo di elaborazione; erano, o si illudevano di essere, protagonisti: spettava loro esprimere consenso, o dissenso, rispetto a nuove analisi della realtà, a nuove riflessioni progettuali, alla individuazione di nuovi obiettivi per l’azione pratica.

https://www.corrierepl.it/2019/11/28/la-riduzione-dei-parlamentari/(si apre in una nuova scheda)

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