Oltre 2.300 professionisti sono risultati positivi al COVID-19; di questi, oltre l’80% sono medici e infermieri. Tale risultato è strettamente legato all’assenza di adeguati dispositivi di protezione personale e di un livello di stress per la carenza di organici che lascerà il segno anche dopo l’attuale emergenza.
Il 70% dei positivi è asintomatico, o con sintomi lievi; queste persone diventano inconsapevoli vettori del virus, incrementando il valore del fattore R0 (basic reproduction number). R0 misura il numero di persone che vengono contagiate da una singola persona già infetta; è dunque fondamentale se parliamo di agenti infettivi. Per capire meglio, un R0 pari a 1 significa che da un singolo infetto mediamente l’infezione passa ad un altro individuo. Un R0 inferiore di 1 significa che il contagio è in regressione. Ridurre R0 ad un valore minore di 1 è l’obiettivo che lo Stato Italiano persegue attraverso le misure di contenimento adottate finora; eppure nonostante tali limitazioni non si è evitata la pandemia.
Secondo il prof. Angelo Vacca, direttore della Medicina Interna “Guido Baccelli” dell’Università di Bari, si potrebbe pensare di cambiare l’attuale strategia, definendo altre priorità, dando la precedenza ai nodi essenziali che consentono di attivare a loro volta dei processi per poter vincere la lotta con il nemico invisibile Coronavirus.
“Si devono mettere in sicurezza i medici ed infermieri, – dichiara il prof.– ed incrementare sia il numero di tamponi che le postazioni dove poter procedere con questi esami di laboratorio. Poco fattibile far gravare tutto il lavoro su un unico laboratorio collocato presso il Policlinico di Bari, si rischia il collasso. Sul territorio sono presenti diversi professionisti, biologi compresi che hanno una formazione adeguata per poter effettuare i test. Si devono sono ingaggiare. Quindi la parola d’ordine è effettuare il tampone anche ai soggetti (operatori sanitari o pazienti che entrano nei Pronto soccorso per altre patologie) asintomatici o paucisintomatici, in quanto essi possono albergare il virus nella percentuale del 10% (soggetti asintomatici) o del 30% (soggetti paucisintomatici)”.
L’Italia dovrebbe dunque copiare ed eseguire i processi messi in atto da chi ha vissuto prima di noi l’emergenza e gestione del virus.
La Corea del Sud, che possiamo definire una best practice per i risultati ottenuti, non ha attuato le misure restrittive adottate dall’Italia, che ha cercato di imporre un cordone sanitario attorno alle note zone rosse. Facendo tesoro dall’esperienza dell’epidemia della Mers (la Sindrome Respiratoria del Medio Oriente) nel 2015, ha messo in atto un massiccio programma di test, con il più alto numero di tamponi pro-capite a livello mondiale.
Circa ventimila persone al giorno vengono testate, allestendo anche postazioni in zone lontane dagli ospedali. Potremmo quasi dire che hanno creato un laboratorio all’aperto, come un take away McDonald, dove chiunque, senza alcuna prenotazione, senza scendere dalla macchina, può eseguire il tampone. Il tasso di mortalità, in Corea, con questa organizzazione è dello 0,7%, contro il 3,4% a livello globale, secondo le stime dell’Oms.
“Il controllo a ritmo continuo è l’arma che può contenere il contagio e probabilmente anche salvare vite umane” – continua l’accademico – , riportando i dati forniti dall’articolo pubblicato questa settimana, su Science. “Le infezioni provocate dai portatori sani, asintomatici, sono state la fonte di infezione per il 79% dei casi documentati in Cina. Questi risultati spiegano la rapida diffusione geografica di SARS-CoV2 e indicano che il contenimento di questo virus sarà particolarmente impegnativo.”
Chi è risultato positivo la test, in Corea, viene messo in auto-quarantena e monitorato attraverso le app, fino a quando non si rende disponibile un posto letto in un ospedale.
La mappatura dei contagiati, passa anche attraverso uno screening dettagliato di tutti i luoghi che il paziente ha frequentato nei 14 giorni precedenti della manifestazione della febbre, cosi facendo si possono contattare le persone con cui è stato in contatto il paziente ed invitarli a fare il test.
Forse, allora, il virus va cercato, e non solo evitato.
Rosa Porro