La tragedia avvenuta l’8 agosto del 1956 nella miniera di carbone di Marcinelle in Belgio, ove trovarono tragica morte 156 italiani su un totale di 262 vittime, aveva avuto origine dalle misere condizioni in cui ci eravamo trovati alla fine della seconda guerra mondiale. Eravamo un popolo vinto, che aveva perso la guerra e l’aveva persa non bene. Eravano già stati umiliati con la firma dell’armistizio “lungo” avvenuta il 29 settembre 1943, da parte generale Dwight D. Eisenhower per gli Alleati e dal maresciallo Badoglio per il Regno d’Italia. De Gasperi era stato accolto da un gelido silenzio il 10 agosto del 1946 alla conferenza di pace di Parigi, prima di iniziare il suo discorso. «Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me…..». Tutto era difficile in quei giorni, rialzare la testa era difficile. Approvvigionarsi di beni indispensabili alla ricostruzione era difficile. Ben venuto, dunque, il piano Marshall del giugno 1947 e ben venuta, l’anno precedente, l’offerta del Belgio, tradotta nell’accordo poi chiamato Uomo-Carbone.
In definitiva si era stipulato un contratto su quanto segue: con “Protocollo Italo-Belga” firmato a Roma il 23 Giugno 1946 e aggiornato il 26 aprile 1947” era previsto il trasferimento di 50.000 minatori italiani in Belgio” al ritmo di 2000 a settimana. Da parte belga il Governo si impegna a vendere mensilmente all’Italia un minimo di 2.500 t. di carbone ogni 1.000 minatori immigrati.
In tutti i comuni italiani gli uffici di collocamento pubblicizzavano tale possibilità di impiego che dal canto suo dava poco conto del tipo di lavoro da intraprendere, mentre magnificava i lati positivi di un contratto. Tipo: “Assenze giustificate per motivi di famiglia, carbone gratuito, biglietti ferroviari gratuiti, premio di natalità, ferie, vitto e alloggio presso la cantina della miniera, contratto annuale…”. E poi la promessa che faceva decidere per il sì: “Compiute le semplici formalità d’uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio”. Ufficialmente la «filiera» del reclutamento seguiva un certo ordine: i datori di lavoro belgi inviavano le offerte di impiego al Ministero del lavoro italiano che le trasmetteva agli uffici di collocamento dei comuni. Questi realizzavano manifesti allettanti da affiggere sulle piazze e nei bar di tutta la Penisola, con l’invito a partire per le miniere del Belgio ove avrebbero trovato un futuro fatto di favorevoli condizioni di lavoro e di alloggio. Il volontario iniziava la trafila delle visite mediche: prima presso l’Ufficio sanitario del comune, quindi presso l’Ufficio provinciale del lavoro. Gli idonei erano trasferiti al Centro per l’emigrazione in Belgio di Milano, situato nei locali di un’ex caserma a Piazza Sant’Ambrogio. Dopo una ulteriore selezione da parte della Commissione belga per l’immigrazione e al controllo incrociato della polizia belga e italiana erano pronti a partire. Il viaggio verso il Belgio durava più giorni specialmente per la manodopera proveniente dal sud Italia. Giunti a destinazione gli emigranti non trovavano certo hotel, bensì ex campi di concentramento con baracche di legno, o di lamiere ondulate, letti a castello, materassi di paglia e biancheria sudicia.
Il lavoro nei pozzi era duro, molti avrebbero voluto tornare indietro e sottrarsi a quel lavoro insano e pericoloso, ma ciò non era possibile.
In un contesto di disagio, di totale mancanza di rispetto per i lavoratori italiani (Maccaronì), si inserisce anche la tragedia dell’8 agosto di quel lontano 1956; al peggio non c’è mai fine. Luogo Marcinelle, ore 8,10 di mattina. Due vagoncini del pozzo I, le cui estremità sporgono in modo anomalo rispetto la piattaforma del montacarichi, a causa di una cattiva comunicazione fra il manovratore in superficie e quello a quota -975, tranciano nella risalita alcuni cavi provocando un incendio. Da quuesto punto l’inferno di fuoco si propaga per i corridoi facendo strage di uomini e cavalli. Una colonna di fumo si alza dal pozzo. Da qui in poi la tragedia, e i pressoché inutili soccorsi. Si cercheranno superstiti sino al 22 di agosto quando raggiungendo quota -1035 si comprenderà che l’ineluttabile s’è compiuto. Si contano le vittime, sono 262. Precisamente, 136 italiani, 95 belgi, 8 polacchi, 6 greci, 5 tedeschi, 3 ungheresi, 3 algerini, 2 francesi, 2 sovietici, 1 britannico e 1 olandese.
Si dice che l’integrazione degli italiani fu difficile in quegli anni in Belgio, almeno sino al giorno della tragedia. Dopo: «Il nostro vicino, che non la smetteva mai di insultare mio padre, è entrato da noi piangendo» racconta il figlio di un minatore. “La comunità italiana del Belgio ha pagato con il sangue il prezzo del suo riconoscimento” scrisse Patrick Baragiola sul quotidiano Le Monde.
Giuseppe Rinaldi
girinaldi@libero.it