di Daniela Piesco
La riforma viene veicolata puntando su due aspetti che fanno presa sull’opinione pubblica, il risparmio nei costi della politica e un generico snellimento delle procedure parlamentari. A questi fanno però da contraltare due elementi: il risparmio stimato nel bilancio dello Stato non sarebbe così schiacciante, si aggirerebbe difatti intorno al 4×1000 della spesa pubblica; la riduzione del numero dei parlamentari, inoltre, rischierebbe di impoverire la rappresentatività di Camera e Senato con effetti, oltre che sull’elezione del Presidente della Repubblica, anche sul funzionamento del lavoro istruttorio nelle 14 Commissioni permanenti, quelle previste proprio dalla Costituzione per l’iter delle leggi.
È il trionfo della ricerca del consenso, della propaganda come fine e della deresponsabilizzazione come bussola dell’azione politica, ora ridotta a semplice amministrazione.
Cerchiamo di venirne a capo.
L’approvazione da parte del Parlamento del decreto-legge “Cura Italia” contenente, tra l’altro “l’election day” (accorpamento in un solo giorno delle elezioni amministrative, regionali e referendum costituzionale), impone la necessità di approfondire l’oggetto referendario, la cui inadeguata informazione rischia di disincentivare i cittadini ad andare all’appuntamento referendario o di votare pro o contro il Governo.
Entrando nel merito della legge “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, in caso di vittoria referendaria si assisterebbe ad una riduzione del 36,5% degli attuali componenti elettivi: il numero dei deputati passerebbe da 630 a 400, con un deputato eletto ogni 151.210 abitanti mentre, con la revisione dell’articolo 57, il numero dei senatori verrebbe abbassato da 315 a 200, con un senatore eletto ogni 302.420 abitanti.
La proposta di legge si occupa poi dell’articolo 59 Cost., al cui secondo comma verrebbe aggiunta la previsione secondo cui “il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non può in alcun caso essere superiore a cinque.”
Appare immediatamente che a seguito dell’approvazione della riforma risulta evidente che la riduzione di numero aumenti ulteriormente la scarsa rappresentatività.
C’è stata una grande enfasi sulla riduzione dei costi della politica ma in effetti si tratta di un argomento solo populistico e ne spiego il perché.
Se passerà la riforma ciascun parlamentare continuerà a percepire esattamente ciò che percepisce oggi. Il risparmio calcolato, derivante dal taglio dei 345 parlamentari, è assolutamente risibile: 100 milioni di euro all’anno e cioè 1 euro e 50 centesimi a testa.
Tuttavia una ricerca sui costi della democrazia non può soffermarsi sul dato meramente quantitativo, in quanto si rischierebbe di cadere nella demagogia.
Bisogna, infatti, prendere in considerazione molteplici fattori tra i quali la qualità del lavoro svolto dai Parlamenti.
Il nostro Parlamento, con l’evoluzione dei relativi regolamenti che hanno permesso lo sviluppo di funzioni nuove rispetto a quella legislativa (funzioni di indirizzo politico, di controllo, di garanzia costituzionale), si presenta come un organo fortemente “interventista” rispetto ad altri consessi europei come quello del Regno Unito (dove più incisiva è l’azione del Primo Ministro, che ormai è il capo del Governo e non un primus inter pares).
L’espletamento di queste funzioni spiega la presenza presso la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica di qualificati apparati di supporto tecnico e di documentazione (consiglieri parlamentari, archivisti), in posizione di imparzialità rispetto all’indirizzo politico.
Alla luce di ciò la ricerca sui costi di funzionamento andrebbe fatta distinguendo attentamente le risorse impiegate per la qualità dei servizi prestati, da quelle che giustamente dovrebbero essere eliminate perché non essenziali per il sostentamento della democrazia.
Una maggiore distanza tra rappresentanti e rappresentati crea, una delicata problematica sociale e apre ad una serie di riflessioni sugli altri ambiti (costituzionali e ordinamentali) toccati dalla riforma. Problema questo che insieme alla costante sfiducia nei partiti mina sostanzialmente le basi della democrazia rappresentativa.
La rappresentatività, il rapporto tra parlamentari e cittadini costituisce l’essenza stessa della nostra democrazia,ma alla luce della riduzione dei seggi, verrebbe alterato il principio della rappresentanza e quindi la formazione del rapporto tra eletti ed elettori.
Ne potrebbe seguire una minore o totale assenza di rappresentanza di realtà territoriali anche significative, con i centri più abitati che sarebbero maggiormente rappresentati rispetto alle aree interne del Paese, demograficamente meno popolate, e per questo impossibilitate ad avere collegamenti politici.
L’effetto a lungo termine potrebbe essere anche in questo caso la difficoltà per gli eletti di tener conto delle richieste degli elettori e di rendere conto a questi del proprio operato.
Il Parlamento rischierebbe di essere nuovamente percepito come un’istituzione lontana dai cittadini, affievolendosi come simbolo della rappresentanza.
Appare chiaro che la sola riduzione del numero dei parlamentari non è sufficiente a rendere l’ordinamento più efficiente nella sua struttura e nell’assunzione delle decisioni.
Se proprio si fosse voluto rendere più snello il sistema si sarebbe, allora, potuto sopprimere il Senato: in questo modo si sarebbe ottenuto, ad un tempo, lo stesso risparmio auspicato (315 parlamentari in meno) e una maggiore speditezza dei lavori parlamentari (giacché la legge sarebbe stata approvata solo dalla Camera dei deputati); oppure si sarebbe potuto razionalizzare meglio il sistema, concependo diversamente la composizione e il ruolo del Senato: trasformandolo ad esempio in Camera delle Regioni per garantire un maggior coordinamento e una effettiva cooperazione, tra lo Stato e le Regioni.
Si pensi inoltre anche alla questione dei senatori a vita ex articolo 59 della Costituzione, basato sul fatto se il numero di cinque senatori di nomina presidenziale sia chiuso, cioè il massimo dei senatori di nomina presidenziale, oppure, al contrario, se ciascun Presidente della Repubblica possa nominarne cinque.
Peraltro il ruolo che verrebbero ad assumere i cinque senatori a vita di nomina presidenziale, ad esempio, sarebbe tuttavia molto accresciuto tenuto conto del peso che i senatori a vita hanno avuto in certe legislature ai fini del mantenimento della maggioranza di Governo.
In verità manca una cosa fondamentale,un dialogo con le forze di opposizione.
Questo è un punto essenziale. Il Paese ha assolutamente bisogno di regole condivise.
Continuare a fare riforme a colpi di maggioranza o di referendum alimenta polarizzazione e ingovernabilità.
Il taglio dei parlamentari può rappresentare un importante terreno di incontro tra maggioranza e opposizione. La legge elettorale è un tema.
L’altro, è la riforma dei regolamenti parlamentari. In questo caso non ci sono dubbi che il taglio dei parlamentari vada accompagnato da modifiche delle norme sulla formazione dei gruppi, sulla composizione delle commissioni e in generale sul funzionamento delle camere.
Su questo terreno non c’è motivo per cui le modifiche necessarie non possano essere fatte insieme.
In ultimo vorrei ricordare che I sistemi parlamentari degli altri Stati possono essere molto diversi dal nostro. Per questa ragione la comparazione va fatta con sistemi più o meno omogenei e comunque distinguendo il numero dei parlamentari presenti nella prima Camera da quelli presenti nella seconda.
Mi spiego.
In Italia la Camera dei deputati conta 630 membri: il che vuol dire che al momento abbiamo un deputato ogni 98.000 abitanti. In Germania la Camera dei deputati (che si chiama Bundestag) conta 709 deputati; poiché la Germania ha 20 milioni di abitanti in più dell’Italia, il rapporto che ne viene fuori è il seguente: un deputato ogni 116.000 abitanti.
Meno parlamentari più democrazia?
Condensare in un Sì o in un No la complessità delle posizioni è una responsabilità che rende ancora più necessaria una opinione consapevole.