Negli anni quaranta del novecento Henry Miller, a proposito dell’Acropoli di Atene, annotava: “La base dell’Acropoli mi piace di più dell’Acropoli. Il posto è stato rovinato dagli archeologi; hanno devastato gran tratti di terra per disseppellire una farragine di resti antichi che finiscono nascosti nei musei. Il turista guarda con occhio umido queste rovine, al greco vivente non bada, o lo considera un intruso. Frattanto la nuova città di Atene copre l’intera vallata.”
Nell’immaginario collettivo la Grecia antica e quella moderna sono cose ontologicamente diverse e ci parlano di una frattura insanabile tra un passato glorioso ed un presente che sembra non avere niente da dire al mondo attuale.
Del greco vivente si apprezzerà la disponibilità, la gentilezza, ma non si andrà mai ad Atene per questo. Ad Atene si andrà sempre per i segni di ciò che è stato e non è più, per scoprire le radici e la ragioni di ciò che siamo, per ritrovare le tracce concrete di quanto abbiamo ammirato ed attraverso la nostra presenza rivendicarne in qualche modo il possesso, perché è nella natura dell’uomo l’esaltazione di ciò che è “bello e buono” e selezionarlo, trascurando ogni altra cosa.
“Che c’è di male?” mi si dirà, “Non è infondo questo che è alla base dell’evoluzione, la selezione?”
Polemicamente mi sentirei di obiettare che tutta questa evoluzione non si è realizzata se i nostri istinti sono rimasti esattamente gli stessi: le guerre e le loro motivazioni, così profondamente indagate per esempio da Erodoto e Tucidide, ci parlano di un uomo preda dei propri egoismi, ai quali non è capace di rinunciare ed in nome dei quali sacrifica tutti gli esseri umani che può, senza moto alcuno di ciò che i perdenti chiamano coscienza. La lezione risulta ancora valida, stando alla recente vicenda del ritiro delle truppe americane dalla Siria e che sta già avendo come conseguenza l’ennesimo massacro del popolo curdo da parte della Turchia di Erdogan.
Ma torniamo alla questione iniziale. Certo, quando andiamo ad Atene lo facciamo da turisti e non rubiamo niente a nessuno, anzi miglioriamo l’economia in difficoltà della fragile Grecia. Vero, tuttavia dimentichiamo di guardare alle vite dei greci, a cui preferiamo i reperti di una civiltà che consideriamo morta.
Converrà che io precisi che contro lo studio dell’archeologia non solo non ho niente, ma che io stessa ne sono profondamente appassionata, al punto tale da averne fatto oggetto dei miei studi recenti. Ciò che tuttavia va sottolineato è che esiste un metodo per ogni cosa e distaccare il passato dal presente, preferendolo a ciò che è vivo non mi pare né quello migliore né il più intelligente, visto che ciò che è attuale può dirci cose in grado di sorprenderci e cambiare il corso delle cose, evitandoci di porre in essere quella che non è altro che una forma di razzismo, “light” ma pur sempre razzismo.
Ciò che nell’Ottocento fece sì che tagliasse letteralmente il Partenone e si impossessasse di statue e fregi che lo ornavano e che ancora oggi ritroviamo al British Museum di Londra, non è come atteggiamento tanto lontano da quello di colui il quale oggi consideri qualcun altro, per un insieme di ragioni, più debole ed approfittando della propria condizione di forza, tenti impunito di privare l’altro di ciò che è suo. Ovviamente la vicenda di Lord Elgin ci fa inorridire e tra i suoi contemporanei Byron (e non solo), non esitò ad accusarlo di vandalismo, ma l’Inghilterra acquistò comunque i marmi del Partenone, aprendo un vulnus ancora oggi insanato. Così la Grecia, in ragione della sua fragilità economica e politica subì un ulteriore depauperamento, che un rispetto autentico del popolo greco avrebbe senz’altro evitato.
Il nostro considerare i greci viventi degli intrusi nel nostro viaggio alla scoperta della Grecia antica, come scriveva Miller, consapevoli o no che ne siamo, rivela quanto le nostre relazioni siano incapaci di pensarsi in assenza di rapporti di forza.Questo modo di guardare alle cose può farci agire secondo pregiudizi che ci impediscono di valutare adeguatamente quanto ci circonda. Un approccio che faccia parlare la nuda umanità può restituirci un peso più giusto ed ovviamente più critico, meno sicuro delle proprie ferme e dunque morte certezze, che qualcuno, non senza interesse, si ostina a chiamare cultura. Da quella piccola porta che saremo stati in grado di aprire non ci sarà allora difficile far entrare le parole che Ghiannis Ritsos in “Delfi” fa dire ad un’anziana guida archeologica a proposito dei turisti che durante l’afosa giornata hanno affollato il santuario:” Oggi mi sono stancato molto – con questo caldo, poi – in tutti questi anni mi sono stancato su e giù dal Ginnasio al Museo, dal Museo al Teatro, dal Teatro allo Stadio e viceversa. Sono stanco di parlare senza essere ascoltato, di indicare senza che loro vedano”.
Rosamaria Fumarola