Principale Politica Diritti & Lavoro La lingua incorpora una visione del mondo e ce la impone

La lingua incorpora una visione del mondo e ce la impone

Esiste una specificità della comunicazione verbale giornalistica, un codice linguistico a cui in qualche modo i giornalisti fanno riferimento quando scrivono i loro articoli? (Marrone, Corpi sociali, 2001) De Mauro, Giornalismo e storia linguistica dell’Italia unita, in Castronovo e Tranfaglia (a cura di), La stampa italiana del neocapitalismo, 1976, pp : Non si può parlare del linguaggio giornalistico come di una lingua speciale: il giornale è un coacervo di lingue speciali (finalizzati a raggiungere una tipologia eterogena di lettori e a trattare diversi argomenti nelle diverse sezioni). Beccaria, I linguaggi settoriali in Italia, 1973, p. 64 sg.: Più che un linguaggio settoriale, quello giornalistico è lo specchio di molteplici linguaggi settoriali che sono presenti nella società, la cui risultante è ovviamente la lingua come codice più o meno condiviso.

La lingua è uno dei principali strumenti che condiziona, e con cui si manifestano, le idee, le credenze, le convinzioni e le pratiche sociali più comuni.

Sono molteplici le scelte linguistiche che una testata giornalistica di riferimento può fare per raccontare il femminicidio. La narrazione di un evento così delicato può celare un’involontaria valutazione di merito da parte del giornalista.

La  mia riflessione nasce da una domanda scaturita dalla lettura giornaliera dei numerosi casi di femminicidio che caratterizzano ormai da anni la cronaca italiana: è possibile che la stampa di qualità e il discorso giornalistico possano veicolare in modo implicito un’immagine sessista e stereotipata della donna vittima di violenza, dell’atto violento e dell’uomo che lo commette? E se sì, in che modo?

Nelle pagine di cronaca, infatti, il gesto violento o omicida dell’uomo è solitamente motivato in molteplici modi: il troppo amore può far stare talmente male da portare alla violenza; il dolore e la sofferenza possono essere talmente forti da “infettare” il sentimento amoroso e portare alla violenza; la pulsione sessuale maschile può essere talmente forte da sfociare nella violenza fisica nei confronti della donna.

Ho altresì notato che pochi mezzi di informazione sostengono la tesi secondo cui violenza di genere e femminicidio non sono frutto dell’amore, bensì di una cultura che assegna alla donna un ruolo sociale subordinato che prevede anche la sottomissione o la soppressione fisica quando se ne discosta.

Lo stereotipo dell’uomo che ama troppo e uccide per il troppo amore o quello dell’uomo che abusa in preda ad un raptus irrefrenabile sono due chiavi di lettura dei fatti ampiamente usate e ,a mio sommesso avviso, abusate dai giornalisti. È interessante capire se si tratta della visione di alcuni giornalisti che decidono di stare dalla parte dell’omicida e dell’abusante e di esprimere questo punto di vista nella propria narrazione, o se invece la parola e il racconto giornalistici riflettono e mettono nero su bianco quell’antica consuetudine culturale che giustifica la reazione violenta degli uomini davanti al cambiamento degli equilibri sociali tra i generi.

Non è superfluo affermare che qualsiasi trattato, convenzione o dichiarazione internazionale che voglia combattere la violenza contro le donne deve necessariamente partire dall’origine della violenza: la discriminazione di stampo sessista che le donne subiscono da secoli in seno alla società di appartenenza. Una discriminazione che punta a sminuire il ruolo della donna e a controllarne pratiche e voleri e che, come ho  accennato sopra, è fondata su e si nutre di pregiudizi e stereotipi sessisti.

In La Bella, La Bestia e l’Umano, Annamaria Rivera definisce il sessismo come un sistema che proclama e giustifica la superiorità di un sesso su un altro, in cui idee, credenze e convinzioni, stereotipi e pregiudizi, norme giuridiche e pratiche sociali, comportamenti individuali e collettivi concorrono a perpetuare e legittimare la gerarchia e la disuguaglianza fra i sessi.

Affrontare il tema della violenza contro le donne è un’impresa ardua. Nonostante le statistiche presentino una situazione grave su scala mondiale, il femminicidio continua a rimanere un tabù. La tendenza dominante è quella di sminuire, banalizzare o addirittura nascondere i casi di violenza.

Ma qual è la realtà di riferimento del termine femminicidio?

In Femminicidio2 Barbara Spinelli spiega che questo recentissimo neologismo è una moderna categoria generale di violenza contro le donne che include in un’unica sfera semantica tutte quelle pratiche sociali violente volte a limitare la libertà delle donne o che attentano alla loro vita. Il termine femminicidio è usato per indicare ogni atto con cui una «donna subisce violenza fisica, psicologica, economica, normativa, sociale, religiosa, in famiglia e fuori», ovvero ogni forma di «violenza o discriminazione esercitata contro la donna in quanto donna […], in ragione del suo genere » (Spinelli 2008:21).

Strettamente collegato alla parola femminicidio è anche il neologismo femmicidio, con cui si indica «la causa principale delle uccisioni di donne, ossia la violenza misogina e sessista dell’uomo nei loro confronti» (Karadole 2011:19), «l’atto estremo di violenza di genere» (Karadole 2011: 21).

«La violenza sulle donne è un cancro che divora il cuore di ogni società,in ogni paese del mondo, in tempo di pace come in tempo di guerra.

Almeno una donna su tre, nel corso della propria vita, ne è vittima.

Il mondo deve dire: “Mai più violenza sulle donne!” »da Donne. Il coraggio di spezzare il silenzio – Amnesty International (2005)

La violenza contro le donne, il femminicidio e la discriminazione di genere pervadono ogni ambito della società contemporanea, senza limiti geografici e culturali.

Ancora oggi, un numero allarmante di donne è bersaglio di violenze fisiche e psicologiche per mano della controparte maschile. Violenze dirette, spesso fatali, a cui si affianca una violenza linguistica, più nascosta, diffusa in modo implicito a più livelli.

Partire da tali  considerazioni aiuta a comprendere lo scopo di questo mio pensare che, come si evince dal titolo, si incentra sulle  modalità con cui idee e stereotipi sessisti possano passare, in modo indiretto, attraverso il linguaggio giornalistico.

La scelta dell’argomento e’ partita da un interesse personale nei confronti del femminicidio, un tema molto attuale nella stampa, ma che ritengo  dibattuto in modo discutibile. Sfogliando le pagine dei quotidiani nazionali , infatti, ho  notato che molte testate di qualità raccontano la violenza contro le donne attraverso una struttura lessicale e discorsiva che giustifica, indirettamente, il carnefice e il suo gesto, e che colpevolizza la vittima, in uno schema che si basa sul concorso di colpe e che stravolge la reale natura del crimine.

È da queste fondamentali considerazioni che prende avvio la mia  analisi. Più nello specifico, partendo dal presupposto che «la discriminazione sessista e gli stereotipi di “genere” pervadono la lingua nella sua interezza e sono rinforzati da essa» (Lepschy, 1989: 62), vorrei stigmatizzare il discorso giornalistico sui   casi di femminicidio, per capire se e in che modo la lingua possa, nel  caso specifico, favorire  un immaginario simbolico fortemente discriminatorio.

Che percezione ha la stampa italiana del tema della violenza contro le donne?

Un rapido sguardo alla letteratura storica di stampo femminista ci consegna come dato di fatto che la «deliberata e sistematica subordinazione delle donne da parte degli uomini in un dato contesto culturale» (Offen 2000:20) è sempre esistita, e questo allo scopo di mantenere saldo il controllo del più forte sul più debole, dell’uomo sulla donna.

All’interno di questo meccanismo di controllo, l’atto violento contro una donna (dal femmicidio, passando per lo stupro, arrivando allo stalking e al sessismo linguistico) ha origine da un improvviso riposizionamento delle parti nel rapporto di potere uomo-donna;

rapporto che, come accennato, è storicamente fondato sulle forzate «condizioni di inferiorità e di subordinazione della donna» (Ribero 2007:177) rispetto all’uomo, all’interno di una determinata società.

Si potrebbe affermare, quindi, che ogni tentativo da parte della donna di staccarsi dal ruolo sociale prestabilito di controparte inferiore e funzionale all’uomo è passibile di una punizione che, nel caso specifico, si esplicita nel femminicidio, usato come metodo per ripristinare quell’ordine di ruoli sedimentato a livello sociale.

A mio avviso due punti imprescindibili per attivare una modificazione virtuosa a livello sociale e culturale sono costituiti dal riconoscimento giuridico su scala internazionale del femminicidio come violenza specifica contro le donne, e dalla definizione della violenza come reato contro i diritti umani della popolazione femminile.

Vorrei chiudere questa  analisi, ribadendo la necessità per il panorama mediatico italiano  di invertire la rotta e dimostrarsi più attento al rapporto intrinseco fra giornalismo, lingua e società e alle conseguenze che ne derivano.

Di fatti anche in seno alle testate di qualità, il controllo sulle scelte lessicali e discorsive può essere carente, in particolare nei casi di femminicidio.

Mi auguro di essere riuscita  almeno in parte, a suscitare l’interesse del lettore sul fenomeno della violenza sulle donne e la visione discriminante legata agli stereotipi di genere, sui pregi e i difetti del linguaggio giornalistico scritto e sui rischi che la lingua può nascondere.

Mi auguro altresì che questo argomento possa essere approfondito attraverso ricerche future, che lo integrino e aprano nuove prospettive.

Daniela Piesco

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