In un mondo sempre più assediato dal rumore, in cui la parola, sempre più abusata, violentata, fraintesa, è divenuta chiacchiera e assuefazione acritica, porsi il problema della sua creatività e vitalità è cosa determinante per l’identità stessa dell’uomo in quanto tale.
Parola è, infatti, pensiero, e tramite per cui ciò che è proprio del soggetto entra in connubio con con l’altro, con la realtà che da sempre ci accompagna.
La parola -come dicevano i Sofisti- è divina, perché come un dio può creare e distruggere universi. Essa lega il nostro mondo interiore, la nostra individualità, a ciò che è altro da noi, la parola è sintesi vivente, microcosmo umano che riflette il macrocosmo divino, piccola verità che si rapporta alla assoluta Verità di Dio. È il tramite di una sintesi universale, della reductio ad Unum della realtà stessa: crea comunione e circolarità di intenti che pone il tutto in intima connessione con la trascendenza.
Ma i tempi in cui viviamo sono quelli di una parola abusata dalla massificazione culturale, e come tale svuotata di autentico significato. La parola della contemporaneità è quella che serve il sistema, ne traduce scelte e ideologia, è diventata stereotipo e luogo comune, e l’uomo che di essa si serve è divenuto schiavo, s’è svuotato di umanità, ha l’anima del burattino fatta di fili che lo muovono a sua insaputa.
Mi interrogo su come sia ancora possibile, in questa attuale temperie, in questo clima di finta democrazia, di finta pluralità, in cui tutto si decide ai vertici, lontano da noi, in cui ci vengono fornite le coordinate per pensare come si vuole che tutti pensino, in questo tempo di pensiero unico, di uniformità rassegnata, in cui i grandi della terra si ergono sulle plebi per plagiarne i pensieri e l’anima, in questo tempo in cui tutto è globale: pensiero, cultura, economia, politica, mi chiedo in che consista l’umanità dell’uomo, l’umanità che si esprime anche, o soprattutto, attraverso la parola.
Dov’è l’individualità, il microcosmo che ha un valore altrettanto assoluto rispetto al macrocosmo perché altrettanto unico? E come si può ridefinire e riconquistare la vitalità della parola? Come può essere riproposta nella corrente omologazione che spazza via i connotati più autentici e le ragioni di ogni cosa?
È davvero problematico, nel nostro tempo. È impresa titanica rimanere ancorati a significati e idee, a sentimenti che franano da ogni parte dentro e fuori di noi. Persino quando la neoavanguardia ha tentato di interrompere questo circolo vizioso, eludendo i canoni tradizionali di un linguaggio, ormai sconvolto e irreggimentato, in realtà, ha perseguito le stesse linee programmatiche del sistema, che proclama e vuole sempre il nuovo ad ogni costo, contro quanto rimane a costituire valore permanente e insostituibile.
La parola vitale è, invece, quella che dice ancora qualcosa, perché questo qualcosa rimanga, perché non sia trascinato via dalla corrente. La parola vitale, per eccellenza, è quella poetica perché àncora questo perenne corso, questo incessante flusso, alla necessità, al suo essere più vero, più profondo, assoluto; perché, eliminando il dato transeunte, il passeggero, il contingente, va al di là, al nocciolo della cosa, all’essere, a rapire il suo cuore nascosto, la sua matrice inossidabile, la sua eterna essenza. Solo giungendo al cuore delle cose, si può rapire la loro verità, l’immutabilità di ciò che è mutevole, la perfetta forma che fugge nell’indeterminata fluidità del divenire.
Ancorare la parola a questo valore eterno, e perciò universale, è il compito sovrano della mente dell’uomo. La ricerca della verità che è al di là di ogni mutevolezza, ciò che rimane fermo per ogni uomo, è ciò che, da sempre, la più autentica, la più alta poesia ha tentato di esprimere. E lo ha fatto pur sapendo il sacrificio destinato allo scacco, lo ha fatto dando corpo alla sofferenza dell’uomo che affronta il Mistero insondabile ed eterno; alla grandezza dell’uomo che si piega alla necessità del divino senza venire meno al compito grandioso che la scintilla di Dio, presente in lui, ha generato.
*** La poesia è anche un modo di esprimere una visione e una conoscenza della realtà attraverso modalità che le sono proprie, vale a dire attraverso un linguaggio che ha caratteristiche proprie e che è, appunto, il linguaggio poetico.
Vi sono svariati modi per esprimere il proprio pensiero intorno alle cose: gli scienziati adoperano il linguaggio specifico, settoriale, della scienza che esplorano e attraverso cui conducono le proprie indagini; il matematico si serve del linguaggio che è proprio di tale disciplina e così fa anche il musicista, servendosi delle note che sono parte del linguaggio della musica. Così il pittore, così l’architetto. Anch’essi esprimono, attraverso un proprio linguaggio, una visione delle cose e della realtà che rimane a fondamento della loro opera. In tal modo, tutti i saperi, nel loro insieme, contribuiscono alla conoscenza il più possibile sfaccettata, variegata e completa dell’intera realtà, del Tutto che ci circonda.
La poesia ha, dunque, un linguaggio che ha proprie regole. Esso parla al cuore e alla mente dell’uomo e suscita in esso il senso della bellezza e dell’eterno. La poesia ricerca, infatti, non ciò che è superficiale nel mondo, ma la verità più propria, il fondamento delle cose, la loro parte più intima e nascosta, il nucleo più insondabile che pure urge di venire alla luce della conoscenza. La poesia è, dunque, una ricerca di verità, aspira alla conoscenza di una Verità ultima, di tutte le cose, una verità che sia il fondamento del Tutto.
Nel nostro tempo si vuole che tutto cambi, e cambi in fretta, e niente rimanga. Nel nostro tempo, contrassegnato dall’usa e getta, pare che anche il pensiero e la parola non siano fatti per restare, ma presto si confondano e si perdano come uno dei mille prodotti dell’attività umana, anch’essi fagocitati da un consumismo che accartoccia e getta via ogni cosa. Così, in questo nostro mondo consumato dalla fretta, dove tutto appare presto frusto e logoro, anche le idee scorrono via veloci e nulla è pensato per restare. Ogni cosa è come masticata in fretta, in fretta digerita, perché il nuovo incalza. In seno alla realtà non esistono più valori permanenti, cui riferirsi, tutto scorre in questa fiumana; anche qualcosa che avrebbe ragione di resistere è portato via nei gorghi di liquami e spazzatura che sommergono il nostro benessere e la nostra voracità di consumatori di beni materiali e immateriali.
Per questo, fare poesia al giorno d’oggi, impegnarsi con ostinazione e controcorrente nella ricerca del fondamento, del nucleo ultimo di realtà che esprime le cose nella loro essenza, sia pure rarefatta, sia pure evanescente, è un’impresa alquanto difficile, e sarebbe spesso votata al fallimento se l’ostinazione del poeta non venisse in soccorso della poesia stessa con una volontà di ricerca ardua, che talvolta quasi trascende i limiti dell’umano.
Ma questa Verità ricercata dalla poesia ha un elemento di individualità imprescindibile poiché il nucleo di verità indagato nelle sue profondità, e che qualcuno vorrebbe definire sacro, appartiene, tuttavia, a un uomo, il poeta stesso che la poesia ha creato. Tutto il mondo interiore del poeta, la sua sensibilità, la sua memoria, la sua capacità immaginativa, il suo pensiero, sarebbero irrimediabilmente perduti se egli non riuscisse a modellare un linguaggio che esprima, in una suprema sintesi, questo crogiolo incandescente. Il potere di un tale linguaggio è quello di dar forma a questa materia prepotente e informe che urge per essere detta, per venire alla luce in un parto che è della testa e dell’anima e non del ventre, che è spirituale e non materiale.
La verità che ricerca dunque il poeta è la sua stessa verità, la sua haecceitas, il suo modo di vedere la realtà e di porsi di fronte ad essa, la sua profonda, singolare, intuizione del mondo che nasce dalla comunione di molteplici fattori che hanno vita nella sua interiorità. Anche sant’Agostino è preso da una tale ricerca interiore, nel cercare Dio; anch’egli è convinto che “In interiore homine habitat veritas.” Ed è questa stessa Veritas agostiniana che il poeta fondamentalmente persegue.
Così, in ultima istanza, il pensiero del poeta, tutta la sua anima, tendono ad essa, alla Verità come elemento unificante, come dato ultimo che compendi tutto il reale e ne sia il fondamento.
Succede poi che molte delle verità espresse dal poeta (e che dovrebbero culminare nella verità ultima, agostiniana, nella Veritas di Dio), siano poi condivise dal mondo. Chi legge dei versi sente talvolta in profondità la consonanza col mondo interiore del poeta, con quello che egli dice e pensa, sente che profondi legami stringono il mondo del poeta al suo; anch’egli avrebbe voluto esprimere le stesse verità e, di fatto, le esprime attraverso la voce del poeta che parla per lui così profondamente e così universalmente che tutto l’uomo e tutta la realtà trovano compendio nella sua parola.
È questo il valore universale che la poesia possiede in sé, quello di parlare a tutti esprimendo valori universali, universalmente condivisi e fortemente radicati nell’uomo e fondamentali al di là di ciò che è superficiale ed effimero.
Il linguaggio della poesia è, pertanto, un linguaggio che come quello della matematica o quello della musica ha un suo codice e sue regole che rendono possibile codificare messaggi ineffabili, come se il Mistero, a lungo indagato in noi, trovasse finalmente forma e alito vitale per vivere autonomamente nel mondo fuori di noi. E in questo, in tale forza illuminante che è della poesia, in tale turbine creatore risiede la vitalità più ardita e prorompente della parola, quella non abusata, ma scavata dentro di noi, quella che ci riporta alle radici ultime, originarie, alla trascendenza e a Dio.
Rossella Cernoglia