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Il dramma del paziente uno della Liguria: “Stavo malissimo e mi chiamavano untore”

Giorgio Zembo è stato tra i primissimi ad ammalarsi in Italia. “L’isolamento è terribile e in più arrivavano minacce e insulti sui social. Ho temuto per la mia incolumità anche quando sono uscito dall’ospedale”. A distanza di un anno porta ancora i segni del virus ad un polmone.

“Ricordo una leggera pioggia quel giorno. Ricordo di essermi fermato sotto questa pioggia, di aver toccato con la mano una ringhiera di ferro che avevo davanti. E ricordo di aver pianto, senza riuscire a fermare quelle lacrime: non mi sembrava vero di essere lì, di nuovo all’aria aperta. Di nuovo a respirare”.

Così Giorgio Zembo, 55 anni il prossimo aprile, primo cittadino ligure ad ammalarsi di Covid, ripercorre l’uscita dall’ospedale della Spezia, dove venne ricoverato il 25 febbraio 2020, a pochi giorni dall’ufficializzazione del focolaio di Codogno (21 febbraio, ndr) con quei 16 casi che erano solo l’inizio dell’incubo coronavirus in Italia.

Il suo ricovero seguì di poche ore quello di una turista lombarda, in vacanza ad Alassio, trasportata al Policlinico San Martino di Genova, con i sintomi dell’infezione.

Lo racconta Zembo stesso all’Agi, ripercorrendo l’anno trascorso dal momento che gli ha segnato la vita, psicologicamente e fisicamente: “Ho sempre pensato di diventare famoso indovinando una canzone inedita, invece l’ho fatto ‘beccandomi’ il Covid. E non è stato piacevole – dice – I miei dati sono stati diffusi a poche ore dal ricovero e sono stato pesantemente diffamato e aggredito sui social, quasi fosse una caccia medievale all’untore.

Quelle minacce, quegli insulti mi gelarono il cuore. Certo, oggi non succederebbe più, ma allora, oltre alla paura per la malattia, avevo paura che le persone mi facessero del male. Ne parlai persino con i carabinieri”.

Zembo di giorno lavora al patronato Inas della Cisl, di sera – almeno nella vita pre pandemia – è cantante nell’orchestra Ikebana, molto nota nell’ambiente delle balere. Quella doppia vita non è mai stata un peso per lui, almeno non fino al febbraio 2020 quando una strana stanchezza lo aveva cominciato a pervadere. 

“Ho sempre dormito pochissimo: quando suonavo facevo tardi, poi al mattino andavo al lavoro senza problemi. In quei giorni di febbraio mi accorsi di essere debole, fino ad arrivare ad avere un po’ di febbre, circostanza davvero insolita per me. Non solo: il 24 febbraio provai un freddo assurdo, accompagnato da tosse e dagli occhi che lacrimavano.

A febbraio ero stato in una sala da ballo di Codogno

Chiamai la mia dottoressa al telefono e, di fronte a quei sintomi, mi chiese se ero stato nei luoghi dove si erano verificati i primi focolai Covid. Le raccontai che il 16 febbraio ero stato in una sala da ballo a Codogno, mentre due giorni prima, per San Valentino, ero stato a Pontremoli. La dottoressa mi intimò di non venire in studio e di chiamare subito l’112″. 

Da quel momento la vita di Giorgio Zembo cambia: “Abito in un piccolo comune dello spezzino, a Pignone, in una frazione: tre quarti d’ora dopo aver chiamato l’112, arrivarono davanti casa mia, in quel posto abitato da pochissime persone, un’ambulanza e un’automedica.

Dai due mezzi scesero degli uomini vestiti con le tute e i caschi che oggi abbiamo imparato a conoscere, ma che allora sembravano assurdi: mi parvero astronauti appena atterrati in mezzo al bosco. Ero talmente spaventato che mi sono chiuso in casa: pensavo fosse tutto un film. E’ stato mio figlio a convincermi a salire in ambulanza, così dal 25 febbraio è iniziato il mio ricovero”.

L’esito del primo tampone, che all’epoca veniva processato solo a Genova, arriva in serata. Nel frattempo Zembo viene sommerso di telefonate, persino dai responsabili regionali e nazionali del patronato: “Ho pensato che mi licenziassero, tanto il caos di quella giornata” dice oggi sorridendo.

Ma nessuno allora sapeva davvero come gestire la patologia: gli strumenti erano precari, si lavorava con quel che si aveva a disposizione: “Ho perduto sangue dal naso, mi si è gonfiata una gamba. Sono stato devastato dalla tosse, una cosa impressionante che mi toglieva il respiro.

Mi tenevo al letto dalla tosse che avevo: mi sembrava di bere un’oceano intero e di non riuscire a smettere. Sono stato ricoverato, tra ospedale e la casa dove ho aspettato la negativizzazione definitiva del tampone, 34 giorni: quando sono uscito pesavo almeno 10 kg in meno, oggi tutti recuperati con gli interessi”.

Per 17 giorni mi sono sentito imprigionato in una stanza sterile. Ho gioito per dei cioccolatini regalati da un’infermiera

Dei 34 giorni di ricovero, 17 Zembo li ha trascorsi in una camera sterile, “dove non potevi vedere nessuno se non qualche infermiere, mascherato. Magari capitava che si sedessero un istante al mio fianco, che mi dessero una leggera pacca sulla spalla, ma per 17 giorni mi sono sentito imprigionato, anche se il termine non è quello appropriato, perché in fondo mi stavano salvando la vita. Però la sensazione era proprio quella”. 

Di quei giorni di “prigionia”, il 55enne ricorda una infermiera che, per tirargli su l’umore a 10 giorni dal ricovero, gli portò dei cioccolatini di una pasticceria di Rapallo: “Sopra al cioccolato c’era la rappresentazione del coronavirus, un modo per sdrammatizzare: riuscì a farmi ridere molto” sottolinea ricordando quel piccolo momento di leggerezza.

Il virus non è qualcosa che colpisce solo il fisico, spiega il 55enne: “E’ qualcosa che ti cambia dentro. Al 34esimo giorno, quando sono stato dimesso, ho ricevuto una chiamata dallo psicologo della Asl per sapere se fossi stato interessato a fare qualche seduta. Io non ne ho sentito la necessità, ma mi rendo conto che se qualcuno di più fragile o poco stabile si fosse trovato in quella situazione, beh… mi passi il termine, ma gli sarebbe partito il cervello”.

Zembo è entrato in ospedale che il virus aveva appena iniziato a mordere il Paese, ne è uscito che l’Italia era in lockdown, con strade deserte e la realtà ferma al palo, sospesa in attesa delle prime buone notizie.

“Quando dopo 17 giorni di isolamento mi trasferirono in una casa messa a disposizione dal comune per aspettare la negativizzazione del tampone, avevo ancora paura per quelli che mi avevano aggredito sui social perché giudicato ‘untore’. Avevo paura che mi rintracciassero in quell’appartamento e, per quello, la prima notte non dormii.

Trascorsi quelle ore a gustarmi lo spettacolo delle luci dei lampioni e le corse dei treni che passavano. Mi emozionai per cose che, fino a 20 giorni prima, avrei giudicato banali. Eppure in quel momento rappresentavano la testimonianza che ero uscito fuori dall’incubo e avevo rivisto il mondo”.

Oggi, a distanza di un anno, Giorgio Zembo si sente “miracolato: il mio fisico ha risposto bene a quello che avevo addosso. Mi sento miracolato anche rispetto a tanti amici che conosco e che non possono fare quel che sto facendo io. Mi sento miracolato perché mi sono ammalato quando nessuno aveva la reale consapevolezza della malattia, quando se ne sapeva davvero poco, e sono qui oggi a parlarne: nella roulette russa, è andata bene”. 

Il Covid lascia il segno del suo passaggio, più o meno visibile, a chi gli sopravvive: “Ancora oggi fatico a respirare se cammino o sono sotto sforzo – racconta Zembo – Venti giorni fa mi sono voluto sottoporre ad una radiografia e, di fatto, si vede nei polmoni, specialmente nel sinistro, una sorta di alone, niente di rilevante o preoccupante mi ha spiegato lo pneumologo, ma è come se il Covid avesse lasciato un’impronta. Ci sono ‘cicatrici’ che risalgono alla malattia e che non se ne vanno a distanza di un anno”.

Ai negazionisti vieterei di scendere in piazza. Il vaccino l’unica salvezza

Non è stato un film, un’invenzione, sottolinea il primo ligure ad ammalarsi di Covid, rivolgendosi in particolare ai negazionisti: “A queste persone non darei nemmeno la possibilità di scendere in piazza a manifestare il proprio pensiero, per rispetto ai morti, ai medici, agli infermieri che combattono da un anno questa guerra al fronte. Non riesco a concepire da cosa nascano queste idee. Uno non può mettersi contro i dati di fatto, contro la medicina. Davvero, non riesco a capire”.

E pensando ai ‘no vax’, invece, aggiunge: “Per me l’unica salvezza contro questo nemico invisibile è il vaccino, come la storia ci ha sempre insegnato. Il vaccino ha salvato l’essere umano e, con esso, anche l’economia. Non vedo l’ora che tutti lo possano fare. La prossima settimana mi sottoporrò ad un test sierologico per vedere se ho ancora gli anticorpi, ma io il vaccino lo farei comunque. Sarei disposto anche a pagare per farlo, purché si accelerino i tempi”.

Il Covid ha spento anche l’attività musicale di Zembo: “Io sono un malato di musica e mi manca suonare con il pubblico. Mi manca tutto quel mondo che, a mio parere, è stato abbandonato e non aiutato da nessuno. Nessuno può capire quante persone ci siano anche dietro le più piccole realtà. Noi eravamo in 8, l’orchestra Ikebana. Quando leggo i giornali, ascolto la radio o guardo la tv, si parla di albergatori, di ristoratori, ed è giusto, ma di chi fa musica non si parla mai”.

Al 24 febbraio, giorno in cui lo scorso anno è cominciata la sua battaglia contro il Covid, mancano ancora alcuni giorni, ma quando arriverà non sarà certo una data come un’altra: “La ricorderò – racconta – Pur avendo passato quella fase ho ancora paura, perché sento e leggo che sono possibili le ricadute. Per questo mi appello a chi fa finta di niente, a coloro che magari si rifiutano di indossare la mascherina, a quelli che creano assembramenti, che continuano a negare.

A loro dico: magari non ve ne accorgete, ma col Covid c’è da andare all’altro mondo. Vede – conclude – io sono uno che scherza sempre, ma non voglio scherzare su questo ricordo perché poteva andarmi davvero molto peggio. Il 24 febbraio sarà una data che porterò dentro finché campo: una brutta esperienza finita bene, ma su cui non si può abbassare la guardia”. 

AGI – Agenzia Italia

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