MELFI – Cantante, autore, regista e musicista melfitano, tutto questo è Gianpiero Francese , da noi intervistato sia dal punto di vista personale, che professionale.
Partiamo dalle tue origini artistiche, quando hai iniziato a interessarti alla musica?
Da sempre, nasco nella musica. Fin da bambino suonavo la chitarra, poi crescendo con alcuni miei amici formammo i primi gruppetti musicali per le cerimonie.
Raccontaci un po’ del tuo percorso artistico.
Dopo le prime esperienze con i miei amici, intorno ai 20 anni è nata un’altra passione, quella del teatro, questa l’ho sempre vissuta in modo parallelo con la musica. Andando avanti con gli anni feci un’escursione importante con Pino Mango durata ben 4 anni, avevamo tantissimi eventi che ci tenevano occupati dalla Svizzera alla Sicilia. Successivamente venni chiamato per dei progetti molto importanti dal punto di vista teatrale, quindi non ho potuto continuare questa mia passione per la musica. Come esperienza importante nel campo teatrale sono stato allievo di Giorgio Albertazzi, che è uno dei massimi attori della storia del nostro teatro. Ora sono soprattutto un regista.
Raggiungere un proprio stile e identità, quanto è importante per un musicista?
Per me questo è molto opinabile, più che uno stile bisogna essere sé stessi, perché se lo si è, lo stile passa in secondo piano; poi, se il messaggio della canzone si riesce a trasmettere può essere considerato come un ulteriore importante traguardo. Parlando sempre sullo stile e sull’identità di un musicista, sono dell’idea e posso dirlo apertamente, che anche i grandi della musica infondo imitavano qualcuno, magari mettendoci un pizzico di sé stessi, ma pur sempre ispirandosi a quelli che potevano essere i loro idoli, nonché punti di riferimento artistici.
Quali sono i tuoi punti di riferimento (cantanti o band a cui si ispira)?
Mi piace molto il cantautorato italiano, sono cresciuto con la musica di Fabrizio De André, con Paolo Conte, con Ivano Fossati, ho amato Lucio Dalla, De Gregori, anche se quando ero giovanissimo mi piaceva l’Hard Rock, un po’ come tutti i miei coetanei di quei tempi, poi col tempo scoprii questi grandi cantautori, che di insegnamenti me ne hanno dati tanti, anche grazie alla poesia che c’è nelle loro canzoni.
Cos’è la musica per te?
La musica è un linguaggio universale, se si pensa a come si possa comunicare con altri popoli, anche attraverso linguaggi sconosciuti, si usa la musica, anche negli incontri ravvicinati di terzo tipo nel film, dovendo comunicare con gli extra-terresti si è usata la musica. La musica è uno strumento universale a differenza di altre arti, come il teatro che ad esempio ha qualche limitazione nel linguaggio, ma la musica, la danza, la cultura, la scultura e la pittura sono tutte arti universali, ma la musica su tutto, la musica è vita… Magari ognuno di noi avesse una colonna sonora per la vita, questo sarebbe davvero bello.
Cosa provi quando canti?
Emozioni, mi emoziona molto, mi piace cantare e questo anno di lockdown l’ho dedicato a questo progetto divertendomi come non mai, ho rimontato il mio studio di registrazione e ho provato a fare questo progetto.
Quanto conta per te il testo di una canzone rispetto alla musica?
Il testo è fondamentale, perché credo che testo e musica debbano essere fusi nella stessa emozione. Credo che se si faccia un concorso mondiale per scegliere di cambiare delle parole da una “canzone standard” per metterne altre, non troveremmo mai la forza espressiva della canzone in sé che è fatta di musica e parole, quindi entrambe le cose camminano di pari passo.
Tra le tue esperienze e partecipazioni, quali ricordi con soddisfazione?
Quella con Pino Mango mi ha dato molta esperienza, ho capito molte cose anche nell’aspetto del mestiere di come fare questo lavoro, poi la mia vita è andata avanti in maniera diversa, perché sono stato chiamato dal teatro, ho realizzato altri progetti, però quando sperimentavo la lunga tournée con lui, testavo su me stesso quanto fosse faticoso questo mestiere che ti occupava giornate intere portandoti alla stanchezza fisica e mentale, convinto che solo la passione e il successo ti avrebbero ripagato nel tempo.
Cosa ne pensano i tuoi amici e familiari della tua scelta di intraprendere questa strada?
Loro tutti sanno che io avevo questa passione segreta, i miei genitori sanno che fin da quando ero bambino suonavo sempre, quindi non si sono meravigliati di questa scelta, anzi molti amici mi hanno spronato anche perché avevo molte canzoni nel cassetto mai rese pubbliche.
Come nasce l’album e perché proprio questo nome?
L’album si chiama “già” per due motivi, il primo perché appunto è il diminutivo del mio nome e il secondo un po’ per sfottere questi amici che invece volevano intitolarlo “finalmente” perché dopo tantissimi anni ho trovato il tempo per ordinare questa mia passione, queste canzoni nel cassetto, che finalmente sono su un CD che rimarrà li, farà il suo decorso. Una canzone presente nell’album intitolata “Io che non ho”, era una canzone che facevo con Pino Mango ma come questa anche altre, ben quattro canzoni che hanno qualche decennio, ma che comunque le ho volute incidere insieme ad altre sei nuove. L’album vero e proprio nasce in una notte, IMAN, la notizia di questa bambina siriana morta di freddo mi ha colpito moltissimo ed ho pensato subito di incidere questo album e di devolvere l’intero incasso dell’album in beneficienza all’UNICEF, per comprare delle coperte a questi bambini che in Siria oltre a subire tutti i danni che portano le guerre, devono superare anche la pandemia da Covid-19 . Quindi con tutti coloro che hanno acquistato l’album sono convinto di raggiungere un risultato ambizioso e di mandare una bella cifra all’UNICEF.
Michael Logrippo