di Claudio Gentile
Nel 2007 Papa Benedetto XVI aveva confermato ed esteso a tutta la Chiesa e senza limitazioni la facoltà, già concessa ad alcuni gruppi da Giovanni Paolo II, di usare il Messale Romano approvato da San Pio V nel 1500 ed usato fino al Concilio Vaticano II. Ratzinger definiva quel modo di celebrare come una “espressione straordinaria della stessa lex orandi”. Il suo intento – e prima ancora quello di Wojtyla – era quello di “favorire la ricomposizione dello scisma con il movimento guidato da Mons. Lefebvre” ed “accogliere con generosità le «giuste aspirazioni» dei fedeli che domandavano l’uso di quel Messale”.
A distanza di tredici anni da quell’atto, lo scorso 16 luglio Papa Francesco ha promulgato il motu proprio Traditionis custodes, con il quale stabilisce di ritirare quella concessione e di restringere il più possibile l’uso del vecchio messale.
Il Papa, insieme al testo legislativo, ha voluto inviare una lettera a tutti i vescovi del mondo per spiegare le motivazioni alla base della sua scelta.
Innanzitutto – spiega il Papa – “quella facoltà venne interpretata da molti dentro la Chiesa come la possibilità di usare liberamente il Messale Romano di San Pio V” e la situazione che si è venuta a creare lo “addolora” e lo “preoccupa”, perché “una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magnanimità ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa e ne frenano il cammino, esponendola al rischio di divisioni”.
Inoltre, secondo il Papa è “sempre più evidente nelle parole e negli atteggiamenti di molti la stretta relazione tra la scelta delle celebrazioni secondo i libri liturgici precedenti al Concilio Vaticano II e il rifiuto della Chiesa e delle sue istituzioni in nome di quella che essi giudicano la “vera Chiesa”. Si tratta di un comportamento che contraddice la comunione, alimentando quella spinta alla divisione – «Io sono di Paolo; io invece sono di Apollo; io sono di Cefa; io sono di Cristo» –, contro cui ha reagito fermamente l’Apostolo Paolo”.
Per questi motivi Francesco, “per difendere l’unità del Corpo di Cristo”, si è visto “costretto a revocare la facoltà concessa dai miei Predecessori” e “di ritenere i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, come l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano”.
Oltre ad eliminare ogni facoltà precedentemente accordata, il provvedimento pontificio assegna ai singoli vescovi diocesani la possibilità di autorizzare l’uso del Missale Romanum di San Pio V caso per caso, di accertarsi che i gruppi che partecipano alle Messa secondo il vetus ordo “non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici”, di indicare una chiesa, non parrocchiale, per le celebrazioni autorizzate e di nominare un sacerdote “che, come delegato del vescovo, sia incaricato delle celebrazioni e della cura pastorale di tali gruppi di fedeli”. Al vescovo spetta anche di verificare l’utilità della presenza di parrocchie personali già create e di non crearne altre.
Infine, i sacerdoti che volessero celebrare secondo l’antica maniera devono chiedere formale autorizzazione al vescovo, che sentirà previamente il parere della Santa Sede.