Principale Arte, Cultura & Società Tra religione ed Etnometapsichica, l’avventura “eroica” di Ernesto De Martino

Tra religione ed Etnometapsichica, l’avventura “eroica” di Ernesto De Martino

Prof. Romualdo Rossetti, già docente di Filosofia e Scienze umane presso vari licei, cultore di ermeneutica del mito classico ed esperto di sociologia e antropologia culturale, può spiegare brevemente ai nostri lettori chi era, e soprattutto chi è stato, per la cultura nazionale, Ernesto De Martino?

Questa sua domanda, apparentemente consona per una testata giornalistica on-line, nasconde, tuttavia, una difficoltà intrinseca presente proprio in quella “brevità” a cui lei fa riferimento. Definire in poche righe chi è stato Ernesto De Martino è davvero un compito molto arduo, quasi ai limiti dell’impossibile e, me lo consenta, anche un tantino irrispettoso nei confronti della sua memoria. Ernesto De Martino è stato, senza ombra di dubbio, una tra le pochissime figure culturali italiane del ‘900 che ha operato una vera e propria rivoluzione gnoseologica senza precedenti. Solo pochi italiani, nonostante ciò, conoscono a fondo il suo pensiero e la sua opera. Pensi che alcune case editrici persistono ancora a scrivere scorrettamente il suo cognome.

Come lo scrivono?

Lo scrivono quasi tutte “de Martino” quando la preposizione patronimica andrebbe, invece, scritta in maiuscolo “De Martino”. Tale imprecisione che divenne consuetudine di scrittura dipese dall’esempio olografo utilizzato in copertina dalle edizioni demartiniane della casa editrice Argo di Lecce, come ha giustamente evidenziato l’etno-antropologo sardo Placido Cherchi nel suo saggio Il cerchio e l’ellisse.

Quindi in che senso De Martino ha realizzato questa rivoluzione gnoseologica? Ce lo può descrivere?

La cultura italiana dall’800 in poi è stata dominata, quasi sempre, da grandiosi “sistemi filosofici”, primo fra tutti l’idealismo hegeliano che a Napoli trovò la sua più naturale sede di collocazione e sviluppo nazionale, sviluppo dovuto soprattutto alla particolare indole e intelligenza del popolo partenopeo. È indubitabile, però, che l’idealismo napoletano espandendosi su tutto il territorio italiano si sia presto trasformato in una rigida struttura concettuale dalla quale era quasi impossibile fuggire. I sistemi di pensiero di Bertrando Spaventa e di Benedetto Croce dominavano incontrastati la scena. A complicare la situazione si sarebbe aggiunta l’originalità della filosofia di Giovanni Gentile che col suo Attualismo si muoveva sempre nella dimensione culturale del neoidealismo italiano. Possiamo quindi dire che Ernesto De Martino, pur aderendo allo storicismo crociano, da pensatore “eretico”, riuscì ad allargare quelle strette maglie logico-formali facendovi penetrare discipline e fenomenologie considerate da quasi tutta l’intellighenzia nazionale del tutto prive di decoro intellettuale e di autentico valore filosofico.

Quali sarebbero state queste discipline e queste fenomenologie e in che maniera riuscì a farlo?

L’etnologia e il magismo, o lo studio sulla magia che dir si voglia! Vi riuscì semplicemente ostinandosi a comportarsi come uno storicista crociano incurante dei divieti imposti dal suo sistema ideale di appartenenza. Si comportò come un pensatore storicista disposto ad accogliere ciò che per altri non era che pura eresia. Per comprendere come vi riuscì bisogna, però, fare un salto a ritroso nel tempo. Va detto che il suo sforzo intellettuale più importante, che lo connotò fin dalla più giovane età, fu lo studio della missione sociale e civile della religione. De Martino anelò sempre di potersi muovere in un contesto religioso civile, mi si perdoni l’utilizzo di questo apparente ossimoro! Tale nuova considerazione religiosa, carica di desiderio e di speranza, lo spinse nel 1930 a prender parte convintamente alla ideologia fideistica professata dalla Scuola di Mistica Fascista di cui fu ispiratore il giornalista Niccolò Giani. La sua militanza nel PNF che lo portò nel 1932 ad aderire alla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale in veste di giovane ufficiale fu, dunque, una scelta presa in piena coscienza. Dopo la sua laurea e con gli inizi del suo insegnamento a Bari le sue convinzioni politiche, a differenza di quelle sulla religione, sarebbero cambiate completamente.

Quale fu il percorso di studi di Ernesto De Martino? Ci può parlare di questo?

Certo! Cominciamo col dire che Ernesto De Martino nacque a Napoli il 1 dicembre del 1908 ed ebbe la sfortuna di avere, sin da giovane, una salute molto cagionevole. Dovette successivamente seguire le destinazioni di lavoro di suo padre, suo omonimo, che svolgeva la professione di Ingegnere presso le Regie Ferrovie d’Italia. Visse in una famiglia di cultura borghese aperta al modernismo. Quell’indirizzo pedagogico di famiglia lo condizionò a tal punto che, in quel di Firenze, quando dovette scegliere l’indirizzo da intraprendere per gli studi medi superiori optò per il Liceo Classico “Michelangelo”, sol perché offriva agli studenti un corso di studi sperimentale che sostituiva la lingua e la letteratura greca con quella tedesca. Scelta che, come vedremo in seguito, avrà nel corso della sua avventura culturale il suo peso cruciale. Una volta conseguita la maturità, non più a Firenze ma a Napoli, decise di primo acchito di seguire le orme paterne iscrivendosi nel 1928 al Politecnico di Torino, istituzione universitaria che avrebbe successivamente abbandonato per iscriversi alla facoltà di Filosofia di Napoli dove avrebbe potuto continuare a formarsi filosoficamente parlando nella direzione desiderata ovvero quella della missione religiosa in ambito civile. De Martino fu fin da fanciullo un attento e accanito lettore che divorò letteralmente opere di autori di diverso orientamento filosofico e lo fece soprattutto su suggerimento di un suo caro amico di qualche anno più grande che ebbe un ruolo determinante nella sua crescita. Durante gli studi universitari dovette assolvere, al contempo, ai doveri militari in quel di Moncalieri e quando giunse il tempo di scegliere l’argomento da trattare per la propria tesi di laurea, proprio a causa della citata carenza di cultura greca, fu intenzionato a orientarsi a trattare i miti italici con il celebre professore Adolfo Omodeo, uno dei migliori allievi di Giovanni Gentile che si era distinto per i suoi studi sul Cristianesimo. Fu proprio in quel periodo che conobbe una personalità di grande rilievo nazionale, mi riferisco all’intellettuale triestino di origine ebraica sefardita, nonché ispettore alla Soprintendenza del Museo e degli scavi di Napoli che sarebbe divenuto il suo angelo tutelare nonché suo suocero, Vittorio Macchioro. Quest’ultimo da esperto grecista e cultore dell’Orfismo riuscì a convincerlo a lasciar perdere i miti italici e a orientarsi invece verso la cultura greca arcaica. De Martino fu persuaso a tal punto da Macchioro da scegliere come argomento di laurea I gephyrismi eleusini, ovverosia quelle particolarissime invettive presenti nel rito misterico lanciate da alcune donne al passaggio di un ponte durante la processione sacra che da Atene procedeva verso Eleusi. L’aiuto di Macchioro non gli venne mai meno! Dopo essersi laureato nel 1933 con i professori Omodeo, Aliotta e Galdi, continuò ugualmente a frequentare casa Macchioro tanto da legarsi sentimentalmente ad Anna, la figlia maggiore del valente studioso, che avrebbe sposato qualche tempo dopo e che lo avrebbe reso padre di due figlie. Subito dopo essersi laureato, per farsi conoscere, si affrettò a dare alle stampe un piccolo saggio intitolato: Il concetto di religione che aveva estrapolato dall’estratto della sua tesi di laurea ma che aveva diversificato e migliorato includendo degli importantissimi ritocchi. Il breve saggio trovò accoglimento sulla rivista fiorentina “La Nuova Italia”. Da quegli studi si intuiva che per De Martino il mito, deteneva la responsabilità di una suggestione veritativa che lo liberava dal venire considerato, com’era successo fino ad allora, come una sorta di philosophia inferior, ed emergeva anche una vicinanza concettuale con quella di Benedetto Croce che, poco prima, si era filosoficamente contrapposta a quella del celebre teorico delle religioni Raffaele Pettazzoni. Tramite l’intermediazione del suo professore Adolfo Omodeo, cercò di far pubblicare la sua tesi di laurea sulla prestigiosa rivista universitaria “Studi e materiali di Storia delle Religioni” curata dal Dipartimento di studi storico-religiosi dell’Università La Sapienza di Roma diretto proprio da Raffaele Pettazzoni. La pubblicazione avvenne nel 1934 col semplice titolo di I Gephyrismi ma non si può oggi escludere del tutto che l’aver abbracciato riguardo al mito, le tesi crociane lo possa aver posto in una specie di cattiva luce nei confronti di Pettazzoni che successivamente avrebbe bocciato le aspettative di De Martino riguardo la possibilità di vincere una borsa di studio del corso di perfezionamento in Etnologia e Storia delle religioni. Col superamento, poi, del concorso a cattedra per l’insegnamento di Storia e Filosofia presso i Regi Licei d’Italia, col matrimonio e con l’insegnamento in quel di Bari, gli avvenimenti personali del giovane professore napoletano sarebbero mutati completamente.

Quindi cosa accadde a Bari?

A Bari gli avvenimenti presero una piega diversa. De Martino ricevette un incarico di supplenza per insegnare Filosofa e Storia presso il liceo scientifico “Arcangelo Scacchi” dove fu molto apprezzato dal preside. Sempre a Bari strinse amicizia con Fabrizio Canfora, suo collega d’insegnamento, padre del noto filologo classico Luciano e cognato dello stimato giurista di fede mazziniana Michele Cifarelli. L’avvenimento più importante avvenne, però, casualmente. Mi riferisco all’incontro avutosi alla stazione col Sen. Benedetto Croce che in quell’occasione era scortato da un gruppo di intellettuali baresi tra i quali comparivano alcuni conoscenti di De Martino. Benedetto Croce rimase subito molto colpito dalla vivacissima intelligenza del giovane professore di filosofia dello “Scacchi” tanto da volerlo tra i suoi ospiti fissi presso Villa Laterza, residenza di proprietà dell’editore di Putignano concessa come dimora al filosofo napoletano nei suoi soggiorni baresi. Lì De Martino ebbe modo di conoscere altri intellettuali antifascisti tra i quali spiccava su tutti il professore meridionalista Tommaso Fiore. De Martino, tramite l’autorevole intermediazione di Benedetto Croce riuscì a pubblicare presso la casa editrice Laterza il suo primo saggio di rilievo che intitolò Naturalismo e Storicismo nell’etnologia tramite il quale si era proposto di criticare quella che considerava essere l’inesattezza dottrinale dei modelli etnologici all’epoca presenti, prospettando un nuovo modo di approcciarsi all’etnologia. Il saggio risultò alla critica acerbo ed eccessivamente polemico e non destò l’interesse del mondo culturale che l’autore si aspettava. Nel frattempo grazie alla frequentazione assidua di Canfora, di Cifarelli e di Fiore, De Martino, tiepidamente si discostò dall’ideologia fideistica fascista per abbracciare quella progressista di stampo liberalsocialista. Dopo uno screzio tra Benedetto Croce e i suoi accoliti inerente il concetto di liberalismo e azione di battaglia politica, De Martino si distaccò dall’indirizzo di pensiero del senatore napoletano, pur rimanendo sempre nelle sue grazie, e abbracciò l’ideologia di Giustizia e Libertà. Fece parte del primo nucleo antifascista clandestino creato intorno a Tommaso Fiore e agli editori Laterza, anzi, secondo alcuni fu proprio lui a scrivere nel 1941 con un esplicito richiamo risorgimentale presente nella formula Io mi levo insorgendo e giuro… i precetti da rispettare nel circolo liberalsocialista barese che ebbe, però, vita breve. Appena pochi mesi dopo la sua fondazione l’Ovra fascista riuscì a infiltrarsi al suo interno tramite un delatore che denunciò per cospirazione politica alla polizia fascista tutti gli iscritti tra i quali comparve in prima fila anche Ernesto De Martino che in quell’occasione non si comportò egregiamente. Durante i duri interrogatori della polizia politica fascista per salvarsi si vanagloriò di essere un fedele ufficiale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e accusò Tommaso Fiore di averlo traviato. Di conseguenza quest’ultimo venne spedito in catene a Ventotene e gli altri soci del circolo patirono una sorte non meno dura. Anche De Martino, però, non se la cavò. Venne deferito dall’Ovra al Ministero dell’Istruzione Nazionale affinché venisse trasferito in altra sede, cosa che avvenne nonostante i tanti tentativi di aiuto di Benedetto Croce e di altri suoi amici influenti. De Martino, dopo molte traversie, finì per essere trasferito a Lucca al Liceo “Antonio Vallisneri”, presso il quale avrebbe insegnato solo per pochi giorni avvalendosi di continui congedi di malattia. Nel 1943 dopo molte suppliche e sempre grazie all’intermediazione di Benedetto Croce ottenne il sospirato trasferimento a Roma presso il Liceo Classico “Virgilio”. Non potendo però raggiungere la nuova sede per motivi bellici, che avevano causato l’interruzione delle vie di comunicazione, si trovò costretto a insegnare momentaneamente presso il liceo scientifico “Evangelista Torricelli” di Faenza.

Cosa accadde in seguito durante gli anni della guerra?

Accadde che il nostro giovane professore si trovò immerso nella drammaticità della guerra civile e militare. La sua famiglia, temendo un possibile sbarco alleato a Napoli, si era trasferita nel piccolo paesino di Cotignola in provincia di Ravenna, luogo d’origine della suocera di Vittorio Macchioro, perché lo aveva creduto un posto più sicuro. De Martino li avrebbe raggiunti presto. La sua famiglia non potette, però, operare scelta peggiore, perché Cotignola, sorgendo a pochi chilometri dalla Linea Gotica, venne praticamente cancellata dalla mappa geografica dai bombardamenti alleati dell’VIII armata. De Martino si unì alla Resistenza e per due volte riuscì a sfuggire ai rastrellamenti tedeschi. Il suo nome era comparso su una lista di persone che dovevano essere fucilate sul posto una volta catturate. Nonostante la drammaticità degli eventi riuscì ugualmente a trovare il tempo per ultimare l’opera più importante delle sue ricerche sul magismo. Mi sto riferendo a Il mondo magico: prolegomeni a una storia del magismo, che avrebbe pubblicato non più con la Laterza ma con la Einaudi nel 1948. In questo saggio De Martino entrò in viva polemica contro quello che definì lo “storicismo pigro” proprio dei seguaci del Croce, quello storicismo anchilosante piegato esclusivamente su se stesso, cerimonioso nei riguardi della propria cultura di appartenenza, ritenuta la migliore di tutte le altre perché consapevole della propria storiografia. De Martino al contrario, diede luogo a un vero e proprio “storicismo eroico” che non temeva di affrontare l’improponibile ideale, l’impuro, il reietto. Il suo storicismo teneva in debito conto tanto l’uomo importante quanto l’ultimo degli uomini. Egli comprese che la primitività non poteva più essere concepita cronologicamente parlando ma semmai soltanto qualitativamente parlando. La primitività, foriera di tutte le sue fenomenologia, magismo in primis, risultava essere onnipresente per De Martino anche laddove non avrebbe dovuto esserci, ovverosia in quell’Occidente progredito che aveva creato i più alti sistemi filosofici. Con De Martino l’idea di progresso culturale venne messa seriamente in discussione. Dalla sua ricerca sarebbe emerso anche quello che per molti studiosi di De Martino sarebbe stato il tema cardine della sua filosofia, ovvero quello della presenza dell’uomo nel mondo. Tale tema in senso antropologico venne da lui concepito come la capacità dell’uomo di conservare nella propria coscienza le memorie nonché le esperienze necessarie per interagire adeguatamente a una particolare situazione storica di crisi o partecipandovi attivamente attraverso la propria iniziativa personale o attraverso l’azione altrui come accadeva a suo dire nel ricorso all’azione sciamanica. Lo sciamano finiva per svolgere un ruolo quasi cristologico di allontanamento del male e del pericolo a favore della sua comunità di appartenenza.

Emerse, altresì, l’importanza antropologica di quel comportamento prettamente umano estricantesi, religiosamente parlando, nell’Ira Hominum, in quel rancore devozionale in piena crisi verso la dimensione del numinoso, quel livore tutto umano che si contrapponeva ferocemente al supremo furore delle divinità, alla tristemente nota Ira Deorum. Lo sciamano esisteva laddove l’intera comunità si riteneva rassicurata e protetta dalla sua azione, tanto da demandargli, la propria presenza e sopravvivenza nel mondo. Il concetto demartiniano di presenza dell’uomo nella storia si avvicinava moltissimo al “da-sein” heideggeriano, a quell’Esserci in cui il rito magico aiutava l’uomo a sopportare la crisi della propria esistenza dinanzi alla natura, avvertita sempre come minaccia. L’umanità, a suo avviso, si era sempre rifugiata, e continuava a farlo anche nella sua epoca, in quei comportamenti stereotipati di carattere sacro che generavano il concetto conservativo di “tradizione”. Possiamo, dunque, sotto questi presupposti sostenere che De Martino si era affezionato all’idea universale dello sciamanesimo considerandolo anche nella sua epoca perché aveva notato la stessa identica finalità apotropaica nell’azione antisemita e antidemocratica di Hitler, un vero e proprio comportamento sciamanico contemporaneo che non aveva perso nulla della sua selvaggia e primitiva essenza. Non a caso, anche in casa nostra, Mussolini oltre che come Duce veniva spesso ricordato dalla massa come l’ “uomo della provvidenza”.

 

 

 

Siamo pertanto di fronte ad un concetto innovativo di magia!?

Non solo! Siamo di fronte alla fulgida intelligenza di un uomo che ha saputo infrangere il dogma idealista pronto a tramutarsi in una verità borghese incontrovertibile e questo, mi creda, non è stato cosa da poco. Sappia che l’uomo De Martino nel corso della sua vita ha commesso una marea di manchevolezze, proprio come tutti noi, manchevolezze come: l’irriconoscenza, la gelosia, la pavidità, l’alterigia; lo studioso De Martino, invece, è stato sempre un fulgido esempio di coerenza filosofica. Stiamo parlando di un uomo intelligentissimo e coltissimo, del fondatore di un nuova disciplina di ricerca l’etnometapsichica, quella disciplina che intendeva esaminare i fenomeni culturali presenti in un dèmos che sfuggivano alla normale fruizione della ragione come: la gestualità magica popolare, il malocchio, le ritualità di guarigione, i fenomeni religiosi popolari e le loro storpiature o per meglio dire i loro “accomodamenti”, la tradizione favolistica e fiabesca popolare, e tanto altro ancora. I suoi approfondimenti di lettura sono stati numerosissimi, come numerosissimi sono stati i suoi contributi di scrittura sotto forma di articoli o di saggi.

Perché irriconoscente e soprattutto verso chi?

Qui ci inoltriamo all’interno di un ambito personale che, però, è bene affrontare, per delineare al meglio il carattere del personaggio ai lettori. Ernesto De Martino fu di sicuro irriconoscente verso suo suocero Vittorio Macchioro e la sua ricerca sull’Orfismo che non tenne in minima considerazione nemmeno quando questa avrebbe potuto offrirgli comodi appigli durante la stesura de La terra del Rimorso, quando esaminò le tante ipotesi inerenti l’origine del tarantismo. In una nota a piè pagina del suo Zagreus. Studi intorno all’Orfismo, Vittorio Macchioro aveva evidenziato la stretta correlazione tra musica, canto e guarigione praticata negli asclepiei con una ritualità molto vicina a quello che accadeva soprattutto nel rito domestico del tarantismo. Non dimentichiamoci che fu proprio Vittorio Macchioro che lo aiutò ad elaborare la sua tesi di laurea e lo inserì, successivamente, nel panorama culturale nazionale e internazionale permettendogli di conoscere altri studiosi che sarebbero divenuti famosi come ad esempio, Mircea Eliade. Fu poi ingrato verso l’editore Giovanni Laterza che per primo ebbe il coraggio di pubblicare le sue tesi quando era ancora un autore anonimo. Poi venne il turno di Cesare Pavese col quale aveva collaborato alla creazione della famosa Collana Viola della casa editrice Einaudi. Pensi che per alcuni biografi di De Martino il titolo dell’opera La terra del rimorso fu scelta, non in riferimento a un lapsus, a un “morso” che ri-tornava ciclicamente, o a un “rimosso temporale” mal pronunciato dalle tarantate, ma dipese verosimilmente da un suo rimorso personale maturato in ritardo verso la triste vicenda dello scrittore piemontese, probabilmente per aver contribuito ad accentuare il malessere esistenziale di quest’ultimo. Fu, poi, irriconoscente verso la figura di Pietro Nenni, prima sedotto e poi successivamente abbandonato, nonostante avesse ricevuto tanto spazio all’interno del PSI, per aderire al PCI perché ritenuto questa volta a ragion veduta, operativamente parlando, meglio organizzato territorialmente, cosa che lo avrebbe agevolato per le sue ricerche sul folklore progressivo di rimando sovietico. In ultimo fu irriconoscente nei confronti dell’etnologo Giovanni Battista Bronzini al quale, sotto certi aspetti, scippò la primogenitura della ricerca etnologica in terra di Lucania.

Ci può spiegare perché De Martino per i suoi studi etnologici più importanti scelse proprio la Lucania?

Cominciamo col dire che la Lucania è stata dall’unificazione d’Italia in poi una sorta di “riserva indiana” nazionale dove nascondere lo sconcio di una politica meridionalistica di fatto sempre inesistente. Tutti sono soliti imputare le responsabilità, se non le colpe, di quella miseria al Fascismo ma si sbagliano. Il problema era sorto prima, molto prima. Basta leggere Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi per accorgersene. L’anarchico Giovanni Passanante, il primo attentatore di re Umberto I di Savoia, era guarda caso, un lucano. Il Fascismo con la sua retorica ridondante tradì la sua missione emancipatrice del meridione, Lucania compresa; praticamente rimasero di quei proponimenti politici solo belle parole. Prima del Fascismo vi era stato solo l’oblio. Dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale il problema della ricostruzione abitativa inerente il piano Marshall divenne impellente. La Lucania per il suo particolarissimo status sociale, soprattutto in direzione delle condizioni igienico-abitative dei Sassi di Matera, aveva attirato l’attenzione di importanti ricercatori nazionali e esteri. Nel 1951 l’imprenditore Adriano Olivetti aveva promosso una ricerca di microsociologia che avrebbe dovuto analizzare lo stato di vita nella città di Matera e nel suo agro rurale. A quella commissione d’indagine avevano partecipato professionisti di spessore come: l’etnologo e antropologo Tullio Tentori, la psicologa Lidia De Rita, l’igienista e epidemiologo Rocco Mazzarone.

Ernesto De Martino era stato invitato a prendere parte a quel progetto di ricerca ma declinò l’invito per alcune divergenze di visione politica e culturale che erano emerse in corso d’opera. De Martino non fu d’accordo con l’organizzazione di una spedizione in cui i molti specialisti potevano operare ognuno per conto proprio nella volontà di realizzare delle riforme pratiche applicate al contesto studiato, senza riuscire a valutare i caratteri teorici e culturali che stavano alla base del problema, dando in tal maniera prova di poca conoscenza dei fenomeni esaminati. Avrebbe assunto, poi, lo stesso atteggiamento dinanzi alla proposta di prendere parte a un’altra inchiesta parlamentare che era partita in contemporanea a quella di Olivetti e che avrebbe dovuto indagare sullo stato di miseria e arretratezza degli abitanti del paese di Grassano. Decise, quindi, di farsi promotore di una spedizione in Lucania forte dell’amicizia di Rocco Scotellaro, il geniale sindaco di Tricarico, ma soprattutto dell’esperienza personale vissuta n quei luoghi da Carlo Levi, che potesse testimoniare lo stato di arretratezza di una parte non piccola dell’Italia, e ciò piacque poco anche ai vertici dello stesso PCI perché rischiavano, a loro volta, di venire tirati in causa, ma col “gramscismo” di De Martino difficilmente si poteva scendere a patti. Egli, in compagnia della sua giovane aiutante e convivente Vittoria De Palma ripercorse, in più occasioni, gli stessi paesi conosciuti dal medico pittore torinese dove studiò le tante fenomenologie folkloristiche esaminando con scrupolo soprattutto quelle inerenti le lamentazioni funebri che costituirono, poi, il saggio intitolato Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria, edito dalla Einaudi che gli avrebbe fruttato nel 1958 il premio internazionale letterario Viareggio Repaci. Da lì i suoi studi sul magismo e le pratiche rituali rurali sarebbero proseguiti con Sud e magia edito dalla Feltrinelli nel 1959 che dalla Lucania si sarebbero spinti a lambire altre zone del Meridione come: Il Sannio, l’Irpinia e l’alta Daunia. Successivamente tramite l’opera La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud edita nel 1961 per Il Saggiatore, De Martino si propose di concludere la sua trilogia antropoanalitica sul Meridione d’Italia il fenomeno di guarigione coreutico-musicale del tarantismo pugliese, da lui considerato alla stregua una specie di Wudù di casa nostra.

Perché definirlo Wudù?

Perché lo considerò come un fenomeno sincretico di guarigione ben inserito in un contesto magico rurale dove elementi religiosi cristiani si sommavano ad altri di provenienza non ben conosciuta.

Lei concorda su questa ipotesi?

Assolutamente no! A mio avviso La terra del rimorso è stata l’opera meno riuscita di Ernesto De Martino. Mi permetta di chiarire, però, il senso del mio giudizio. Pur avendo avuto il merito di far conoscere il fenomeno del tarantismo al grande pubblico più di quanto avessero fatto le ricerche dello storico della medicina Wilhelm Katner e dello psichiatra Giovanni Jervis di poco precedenti la sua, di fatto non riuscì a mondare la sua lettura del fenomeno in questione da tutti quei rimandi gramsciani inerenti la questione contadina e quelli propri della etnologia progressiva di matrice sovietica. Anche lo storicismo crociano ebbe le sue colpe, perché gli fece escludere, ironia della sorte, quelle documentazioni “altre” che rimandavano all’astrologia, per esempio, o alla storia delle religioni, con il rito dell’incubazione onirica documentato tra l’altro nel suo stesso saggio praticato dalla tarantata Filomena di Cerfignano, possibilità d’indagine che gli sarebbero state invece utilissime. Sono queste posizioni dogmatiche del suo pensiero che me la fanno disapprovare. A livello stilistico La terra del rimorso è invece, un’opera bellissima, affascinante, che trasporta. In quest’opera permane, però, il mistero dei non approfondimenti storico-religiosi di De Martino, di tutti quei “perché?” che non ha approfonditamente esaminato e che se li avesse posti in essere lo avrebbero di sicuro trasportato in un contesto iatromantico di ispirazione asclepiea, quindi dentro il contesto dei Mysteria greci da cui aveva preso inizio la sua avventura. Egli propese per un’origine altomedievale (le Crociate) del tarantismo tanto da escludere categoricamente alcun possibile legame esistente tra tarantismo e coribantismo greco in un contributo di poco successivo all’opera che pubblicò sulla rivista universitaria “Studi e materiali di Storia delle Religioni” nel 1961. Andrebbe, anche, ricordata la sua patologia che lo afflisse in continuazione sia da giovane, l’epilessia, che sulle prime lo orientò ad esaminare il culto di San Donato a Montesano Salentino per farlo poi orientare verso Galatina e il suo tarantismo, forse per una forma inconscia di dissociazione apotropaica. Il tarantismo pugliese aveva una valenza ciclica come il mal sacro ma possedeva origini diverse, origini imputabili a manchevolezze umane da espiare tramite un complesso variegato di pratiche rituali.

Concludiamo l’intervista chiedendole quale secondo lei fu l’opera più importante di De Martino e quali letture consiglia ai nostri lettori?

Sono tre le opere più importanti di Ernesto De Martino: Il mondo magico per i suoi approfondimenti sullo sciamanesimo e la “crisi della presenza”, Sud e Magia perché è stata una mappatura geografica interessante della sopravvivenza del pagano magico in ambito contemporaneo e l’incompiuta La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali perché è un’opera squisitamente filosofica che sarebbe stata sicuramente un faro luminoso per l’intera cultura contemporanea nazionale e non solo, se non si fosse trasformata, per la prematura morte dell’autore, in una sorta di libro-fantasma. Consiglio a tutti di leggere tutte le opere di Ernesto De Martino, anche La terra del rimorso, ma consiglio soprattutto di leggere La fine del mondo purché sia l’ultima edizione curata da Marcello Massenzio e non quella del 1977 curata da Clara Gallini, perché quella di Massenzio contiene qualcosa di più critico, di più organico, di più approfondito. In questa emerge un De Martino disincantato e per niente nostalgico dinanzi alla sua enfasi giovanile come quella della Gallini, invece, lasciava intendere. Tale sua ultima opera rappresenterebbe una specie di compendio a quella particolare “fine del mondo” presente ne La terra del rimorso, dove si assisteva all’agonia di guarigione di rito segnato irrimediabilmente dalla modernità galoppante che De Martino aveva veduto di nascosto nella cappella di S. Paolo a Galatina, ma non solo. La fine del mondo potremmo definirla un’opera profetica, anticipatrice sotto certi versi, che vale la pena di essere conosciuta. Per quanto concerne le opere su Ernesto De Martino non posso esimermi dal consigliare le seguenti letture: Ernesto De Martino. Le precedenti vite di un antropologo di Giordana Charuty, e Il cerchio e l’ellisse. Etnopsichiatria e antropologia religiosa di Ernesto De Martino: le dialettiche risolventi dell’«autocritica» di Placido Cherchi.

 

Maria Angela Amato

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