L’AQUILA – Martedì 7 dicembre 2021, nell’Auditorium ANCE –L’Aquila, ha avuto luogo la presentazione dell’ultimo libro, uscito per i tipi delle Edizioni One Group, l’undicesimo di Goffredo Palmerini, giornalista e scrittore assai noto in Abruzzo e fuori i confini regionali e nazionali. La prima ad intervenire è stata Liliana Biondi, saggista e critica letteraria. A seguire, dopo il saluto a nome della municipalità aquilana dell’assessore al turismo Fabrizia Aquilio, hanno preso la parola Francesca Pompa, presidente della casa editrice, Gianfranco Giustizieri, scrittore e critico letterario, e infine l’autore. A fungere da moderatore è stato Angelo De Nicola, giornalista e scrittore.
Il volume, bello, anzi stupendo, fin dalla copertina (un caleidoscopio dai vividi colori di personaggi tutti in vario modo legati all’autore) e con una veste tipografica a cui l’uso sapiente del bianco e nero, col suo fascino discreto che il tempo non ha sgualcito, dà il sapore delle cose buone, reca un titolo, Mosaico di Voci – Storie di rinascita e di speranza, quanto mai appropriato al suo contenuto, e che in qualche misura riassume e quasi esalta il lungo percorso editoriale del nostro illustre conterraneo: una sequela polifonica che la pandemia che ci attanaglia da circa due anni non ha interrotto, un’espressione corale a cui l’emergenza planetaria ha dato una tonalità nuova.
Come nei precedenti lavori, Palmerini porta alla ribalta storie di giovani e meno giovani: aquilani che hanno lasciato un segno del loro talento nel mondo, uomini che hanno avuto successo all’estero a fronte di molti sacrifici, gente che non si è risparmiata, squarci di vita di persone che hanno saputo soffrire con dignità, eventi culturali significativi: tutto quell’impasto di umanità che aiuta a guardare oltre l’orizzonte immediato e che l’autore racconta con quella curiosità feconda e discreta che gli è congeniale. Sessantacinque storie (tante sono le tessere del mosaico) che schiudono la porta alla speranza. In tutte l’autore, come nelle opere precedenti, con quell’attenzione, generosità e senso della misura che è la cifra del suo modo di essere, dà voce a tante persone, spesso sul semplice richiamo che l’argomento o il personaggio trattato evocano. Ciò però che in questo volume, forse più che negli altri che lo hanno preceduto, traspare in ogni riga e che il lettore avverte nel suo animo non appena gira la pagina, è una partecipazione emotiva, una tensione dell’anima che finisce per diventare empatia.
Il libro – è l’autore stesso che lo dichiara presentando la sua ennesima fatica – “nel suo piccolo, non vuole tradire la Speranza, anzi l’abbraccia e la proclama nei piccoli e grandi fatti che racconta, nei gesti e negli impegni della quotidianità”. Quest’ultima creatura di Palmerini parla al cuore e alla mente. È una vera miniera di notizie: angoli di storia locale vi sono descritti con la stessa cura e attenzione che si riserva ai grandi eventi, e il tutto procura un autentico godimento dell’anima. Nel libro si apprendono tante cose, piccole e grandi, e colpisce il gran numero di nostri conterranei abruzzesi presenti all’estero nei più svariati campi dell’umana attività. Sono storie, quelle che si leggono, nelle quali l’ottimismo della volontà è destinato a prevalere sul pessimismo dell’intelligenza.
Nell’umanità descritta nelle pagine di Goffredo si colgono due tratti, per così dire, sociologici. Tutte le persone, quale che sia la loro età e il ruolo che rivestono nella società, sono, ciascuna nel suo campo di azione, persone riuscite, che si sono fatte da sé, avendo saputo mettere a frutto il loro talento o la loro volontà di impegnarsi a fondo. È tutta gente che ha preso la vita sul serio, non si è crogiolata nel dolce far nulla. Inoltre, quella che vive fuori dei confini nazionali appare l’Italia migliore, che tiene alto il buon nome della nostra patria. Si ha l’impressione che all’estero i nostri connazionali facciano leva su caratteristiche che sono, in qualche modo, nel loro patrimonio genetico: la capacità di adattamento e una grande creatività.
In questo undicesimo volume, che copre un periodo di tempo che va dalla metà del 2019 a tutto il 2020, molto spazio è dedicato al ricordo di figure scomparse: si va da Giustino Pacifico, una vita spesa generosamente nell’impegno politico e sociale della comunità locale, ad Amedeo Esposito, giornalista colto e uomo raffinato nel tratto come lo era nel vestire; da Bruno Sabatini, medico, poeta, alpinista e pittore, a Paolo Scopano, protagonista di primo Piano regolatore generale della politica amministrativa aquilana; da Serafino Patrizio, che da umili origini seppe con volontà diamantina realizzare la sua vocazione di educatore alle scienze di generazioni di aquilani, a Mario Di Salvatore, esponente di punta nel capoluogo abruzzese del cattolicesimo democratico; da Roberto Fatigati, infaticabile promotore della cultura abruzzese in terra friulana e giuliana, a Celso Cioni, creativo e appassionato amministratore civico; da Ennio Morricone, leggendaria colonna sonora vivente del cinema italiano e aquilano onorario, ai paganichesi Guido Zugaro, detto “Stanghetta”, uomo di scoppiettante cordialità e contagiosa voglia di vivere (ben noto a chi scrive) che ha saputo creare dal nulla un’avviatissima impresa di Cava che nelle mani dei figli è diventata una solida azienda industriale, e Rosella Tarquini, radiologa, moglie di Elio Ferella, detto “ju artigliere” (lo scrivente lo ebbe simpatico compagno di classe), donna buona e dolce fin dallo sguardo che ha lasciato un vuoto incolmabile nella famiglia e in quanti la conobbero, “destinata a morire come tutte le donne buone”, stando alle parole, umanissime e cristiane, che la figlia Marta ha pronunciato al termine della Messa e che Palmerini non manca di riportare con commossa partecipazione.
Il nostro autore, autentico cittadino del mondo, conserva tuttavia un rapporto speciale con la sua Paganica, che nel secolo scorso è stato un popoloso borgo della conca aquilana che ha dato all’Abruzzo, all’Italia e al mondo talenti e risorse ben al di là della sua reale consistenza urbana. Ci sono a Paganica storie di famiglie che sono vere e proprie saghe (tali ce la fa apparire la penna felice di Goffredo), come quella dei Biordi, casato “benestante e d’antica stirpe che aveva grande confidenza con la scrittura”, in seno alla quale nacque, settimogenito, Nicola Enrico, uomo dal talento poliedrico: oltre che di poesia, nella quale brillò anche nella versione dialettale, si occupò di musica, pittura e giornalismo, scrivendo in svariate e prestigiose testate e diventando un punto di riferimento per tanti giovani aquilani che si affacciavano all’attività pubblicistica.
Dieci libri su undici, sullo stesso tema, potrebbero sembrare troppi, ma essi sono tanti cerchi concentrici: non si sommano, si compenetrano l’un l’altro. È un filo che si aggomitola e si ingrandisce davanti agli occhi dei suoi tanti lettori. Nei racconti di Goffredo c’è tanto della sua filosofia di vita. Ce ne accorgiamo quando prende la parola. La voce è pacata, lo stile sobrio ed elegante, come il suo modo di vestire, il suo sguardo è sereno, incorniciato da una barba vagamente risorgimentale che dà al suo eloquio, caldo e lento, un che di epico: una saggezza che sembra venire da lontano, da una lunga navigazione. Nessuna frase ad affetto, nessuna increspatura, un tono liscio e piano, che avvolge e quasi ipnotizza. La sua scrittura è chiara e scorrevole, a tratti perfino luminosa, come quella di chi è padrone della sua penna. Non ci si annoia ad ascoltarlo e soprattutto non ci si annoia a leggerlo.
Una piccola e dotta questione, lanciata a mo’ di esca dal moderatore del convegno della presentazione del libro Angelo De Nicola nella sua sapida introduzione, ha fatto da sfondo alla discussione, e cioè un giudizio assai severo che Benedetto Croce (1866-1952), in un saggio del 1908, ebbe ad esprimere sull’attività giornalistica. Il filosofo di Pescasseroli asseriva essere il giornalismo non vera arte letteraria, legata come è alle esigenze della cronaca, avulsa cioè da ogni visione di lunga gittata. Il Croce non era nuovo a giudizi taglienti su questo o quell’argomento, spesso in seguito rettificati alla luce di una valutazione più serena. Palmerini, in ogni caso, non si limita a fare della mera cronaca del fatto, ma ha cura di incasellare ciò di cui scrive, per quanto gli consenta la materia di cui tratta, in una cornice storica e sociale, vale a dire in un contesto che va ben al di là della vicenda raccontata. Non è l’oggetto ma lo stile e l’approccio che fanno di un giornalista uno scrittore. Non c’è ragione di dubitare che se Don Benedetto avesse letto gli scritti del nostro autore avrebbe rivisto la sua posizione.
Goffredo Palmerini è stato per lunghi anni un amministratore civico nella città dell’Aquila: consigliere comunale, vice-sindaco, più volte assessore. Poi si è ritirato dall’impegno politico diretto dedicandosi alla scrittura (demone dal quale sicuramente era posseduto fin da ragazzo) e assumendo un ruolo forse ancor più utilmente pubblico. A margine di un convegno dedicato alla sopra menzionata figura di Nicola Enrico Biordi, Mario Narducci, celebre giornalista e scrittore aquilano, parlando dell’opera di Palmerini nell’ambito dell’emigrazione, ebbe a dire “come egli sia stato capace di raggiungere risultati che nessuna istituzione era riuscita a realizzare […], raccontando le nostre comunità d’ogni continente che egli visita”.
Si potrebbe dire di lui, senza esagerare, qualcosa di analogo a quanto un altro paganichese illustre, Edoardo Scarfoglio (1860-1917) ebbe a scrivere sul finire dell’Ottocento su Gabriele D’Annunzio (1863-1938), e cioè che l’opera teatrale La figlia di Iorio del poeta pescarese aveva giovato all’Abruzzo quanto l’aver guadagnato un ministero. L’opera di Palmerini in favore dell’emigrazione e di tutto ciò che ruota attorno ad essa giova all’Aquila e all’Abruzzo intero almeno quanto gioverebbero due sottosegretariati: quello agli Esteri e quello alla Cultura. Il suo libro, Mosaico di Voci – Storie di rinascita e di speranza, è il miglior regalo che si può fare ad un amico.