Principale Politica I pupari del Quirinale

I pupari del Quirinale

Anna Pulizzi per il Simplicissimus

Il presidente della Repubblica è sempre stato cooptato tra i membri di quel consesso, abitualmente denominato ‘casta’, che è il bersaglio prevalente della sfiducia popolare. Tutti i presidenti sono venuti finora da lì, mentre si sussurra che il prossimo potrebbe invece provenire dal mondo dell’alta finanza, o per meglio dire dal suo sottobosco di mezzani, manutengoli, vili affaristi.

Però non appena uno di costoro viene nominato primo cittadino, nell’immaginario collettivo viene cinto in automatico di un alone di prestigio e di superiorità morale. Egli allora cessa di essere un rappresentante della ‘politica zozza’, come lo era stato fino al termine dello spoglio delle schede nel Parlamento riunito in seduta congiunta per divenire all’istante garante di una serie di cose che comprendono il rispetto del dettato costituzionale e l’unità del Paese.

E poiché nella percezione popolare il prescelto abita in luoghi dove gli schizzi di palta così comuni nel mondo dei suoi sodali non possono giungere, ecco che si ritiene naturale possa godere di una serie di tutele, guarentigie e poteri non certo irrilevanti: può sciogliere una delle Camere o entrambe, sentiti i loro presidenti (dove “sentiti” può significare che occorre il loro consenso ma forse anche no). Nomina il presidente del Consiglio dei ministri, su indicazione del voto popolare (ma anche no, come evidenziato dai governi dell’ultimo decennio). Nomina i ministri su proposta del presidente del Consiglio (dove “proposta” può significare che nomina quelli proposti ma anche no, come già accaduto in svariate occasioni). Nomina un terzo della Corte costituzionale, mentre un altro terzo è eletto dalla stessa maggioranza che l’ha portato al Quirinale. E’ infine presidente del Csm e capo delle forze armate. A ciò si aggiunga che nessun esecutivo né il parlamento e nemmeno altri organi dello Stato hanno mai avuto l’ardire di criticare pubblicamente un atto del presidente, nel timore di creare precedenti di conflittualità con la massima istituzione.

Insomma un potere di fatto enorme, anche se quando la mia generazione andava ancora alle elementari veniva spiegato che non siamo certo una repubblica presidenziale come la Francia e gli Usa, perché qui da noi il presidente ha un ruolo di rappresentanza e poco altro.

Recentemente poi si è appreso, o meglio deciso, che il presidente non può essere intercettato telefonicamente nemmeno in modo indiretto o per sbaglio. I suoi colloqui sono segreto di Stato, o qualcosa del genere, benché alla ‘Commissione dei 75’ che redasse la Carta del 1948 non fosse mai venuto in mente di accordare a qualcuno un privilegio di questo tipo. Così come non ritenne necessario precisare che il presidente non può essere rieletto, dato che investire qualcuno di simili poteri per più di sette anni richiamava subito alla mente l’impianto istituzionale di un’epoca drammatica appena terminata.

Invece il rigurgito del mandato Napolitano ha fatto scuola e ora c’è chi non esita a chiedere un Mattarella-bis, o anche solo un pezzetto, magari quel numero da grande mattatore in cui fa a brandelli il copione costituzionale dicendo che rifiuta di nominare un certo ministro perché irriterebbe gli speculatori finanziari. Da antologia.

Voci date per estremamente attendibili ci avvertono però che l’attuale recita quirinalizia non avrà una coda e se ne aprirà una nuova, sicché fioccano le previsioni, sapendo però per esperienza che un nome può essere ‘bruciato’ nel momento in cui viene pronunciato, ad eccezione di quelli più favoriti e probabili.

La congiuntura sarebbe anche interessante, se non sapessimo in anticipo che il prescelto sarà sicuramente un personaggio gradito ai massimi organi della Bce, del Fmi, della Commissione europea, ma anche di Washington e per quanto non sia sempre possibile accontentare entrambe nella stessa misura, anche di Berlino e di Parigi. Poi naturalmente decide il parlamento, ma nell’ambito di una ‘rosa’ di nominativi che rientrano in questi parametri.

Non vi sarebbe bisogno di aggiungere altro, dato che a tali condizioni un presidente vale l’altro. Ma dato che questi sono almeno nominalmente giorni di festa, concediamoci una breve parentesi di vacuità e proviamo a capire chi potrebbe soddisfare le aspettative di centri di potere summenzionati.

In buona parte dell’immaginario popolare Draghi è già presidente di qualsiasi cosa, compresa la Repubblica, godendo di una maggioranza che nonostante tutto ci si ostina a definire ‘bulgara’. Certo che nei desiderata dei poteri economici, sovranazionali o ordoliberisti, Draghi dovrebbe stare sia a palazzo Chigi per preservare la servile concordia del parlamento, sia al Quirinale per continuare a sfornare premier che sappiano gestire con mano ferma il saccheggio del paese per conto terzi. Ma dato che ciò non è costituzionalmente possibile (anche se proprio perciò diventa fattibile nella realtà), ecco che uno dei due posti dovrà essere occupato da qualcun altro.

E’ difficile immaginare chi meglio di Draghi potrebbe oggi valersi di una maggioranza tanto coesa nel garantire l’assoluta sottomissione ai diktat euroatlantici, la devastazione finale dell’apparato economico e produttivo, lo smantellamento di ogni residuo diritto democratico e la demolizione di quel che resta dei servizi pubblici.

Un nome come il suo, che è manifesta incarnazione della soperchieria neocarolingia, può entro certi limiti riuscire ad impedire che i soggetti parlamentari assumano posizioni più critiche in un clima di crescente malessere popolare, ma altri avrebbero in tal senso ancor meno possibilità.

Scivolando nel pettegolezzo, depone a favore di Draghi il fatto che la moglie abbia confidato al barista sotto casa che suo marito si trasferirà presto all’alto colle, cosa che lì per lì sembra valere più del parere di mille politologi. Glie l’ha detto lui (anzi, Lui)? Oppure è solo una manovra per depistarci? Per converso, sempre la signora affermò nel 2018 che il marito non avrebbe mai guidato un governo.

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