Principale Attualità & Cronaca L’arte costruisce ponti. Un’intervista ad Alex Papiro

L’arte costruisce ponti. Un’intervista ad Alex Papiro

Scultore concettuale, origamista e scrittore 

Durante il nostro incontro, a Napoli, mi ha emozionato molto la tua storia di vita. Raccontaci di te, Alex. Chi sei?

Per capire chi sono e comprendere a fondo la mia (scelta di) vita e le mie motivazioni è importante tornare alle radici, al bambino che ero. Un bambino che guardava il mondo degli adulti chiedendosi: “Ma come vivono? Perché si lamentano sempre delle stesse cose e poi fanno poco o nulla per cambiare?”. Fu allora, sul finire degli anni ’80, che dissi a me stesso: “Da grande non voglio diventare così. Voglio essere un adulto felice.

Crescendo, continuando a osservare gli adulti, mi convinsi che il problema è la mancanza di un sogno o la frustrazione per non averlo realizzato, e che, dunque, per essere felici è indispensabile scoprire il proprio e realizzarlo. Fu intorno ai 15 anni, d’estate, che realizzai quale fosse il mio sogno più grande: “Io voglio fare lo scrittore!”

Non sapendo bene dove, come, quando avrei iniziato e in che modo mi sarei potuto mantenere, nel frattempo proseguii gli studi, laureandomi in giurisprudenza. A 28 anni ero già avvocato penalista a Messina, mia città d’origine, e la voglia di esprimermi artisticamente, rinviata di poi in poi, restava ancora dietro le quinte, perché proiettato ad inseguire una stabilità economica e sentimentale.

Ti sentivi realizzato, da avvocato?

L’ultimo studio legale in cui ho lavorato rappresentava la realizzazione di un sogno professionale, in realtà, e proprio lì che ho capito l’essenziale differenza tra essere avvocato e fare l’avvocato, la prima presupponendo, a differenza della seconda, una piena dedizione.

Ben presto, però, il sogno professionale si rivelò un incubo: i ritmi diventavano sempre più serrati, raramente cenavo prima di mezzanotte; emotivamente schiacciato, troppo stanco per fare altro, nel week-end avevo giusto il tempo di riposare meglio e dedicarmi un po’ a me, sicché quando sarebbe stata ora di scrivere o dedicarmi all’Origami – arte che pratico dall’età di 9 anni – i pensieri correvano già ai processi del lunedì e agli atti in scadenza.

Iniziavo a chiedermi, così: “E di questo passo, quando inizio ad esprimermi come artista?”

Cosa ti ha spinto ad iniziare? C’è stato un evento significativo?

Il giorno dopo un litigio di alcuni avvocati tra loro, c’era ancora forte tensione allo studio.

Anziché schierarmi, rischiando di alimentare quel clima ostile nell’attribuire ragioni e torti secondo il mio punto di vista, piegai un origami a testa per le colleghe coinvolte: un regalo simbolico che voleva anche rappresentare un invito silenzioso ad alleggerire il clima.

Ooooh, ma che bello!” esclamò una di loro, illuminandosi in volto.

Improvvisamente, la tensione si era sciolta! Un origami aveva fatto dimenticare tutto il malessere di prima. Quel suono – Oooh! – testimoniava in un adulto, per me, lo stupore dei bambini emozionati nel vedere un foglio di carta trasformarsi in un nuovo oggetto nonostante, al tempo stesso, quello che hai in mano resta un foglio. E quel suono, in quel pomeriggio di marzo, nel 2013, mi ha aperto un mondo e introdotto in prospettive più consapevoli sul ruolo dell’arte e dell’artista.

Ecco perché l’embrione di Radici di Luce, il mio attuale progetto artistico, preludio del mio prossimo laboratorio di libertà emotiva attraverso l’Origami, nacque con questo nome: Origami Oh. 

Quando hai lasciato la professione?

Lasciai la carriera da avvocato 6 mesi dopo, ad Ottobre, ed i successivi 6 mesi li dedicai al network marketing, mentre riflettevo su come crearmi una posizione di rilievo come artista.

All’epoca, ancora ignaro di quanto sarebbe cresciuto in me l’amore per l’Origami, avevo fatto quello che chiamai il patto con me stesso: arte per arte. Pensavo all’arte del piegare la carta, infatti, come a un’espressione artistica da praticare per mantenermi, nell’attesa di propormi ed affermarmi come scrittore. Quest’ultimo traguardo, infatti, mi sembrava lontano, considerato quanti libri, peraltro di vari generi, avevo scritto da ragazzo, tutti cestinati a distanza di tempo, senza nemmeno farli leggere a una casa editrice, tanto me ne ritenevo insoddisfatto.

Come hai cominciato a proporti come artista?

Il modo migliore per iniziare mi sembrò quello di concentrare le energie nel mondo degli eventi.

Così, ho iniziato con workshop, conferenze, mostre, da Napoli a Roma a Milano ad altre città d’Italia: dal Comicon al Festival dell’Oriente, al Lucca Comics, e più eventi aziendali, anche con grandi marchi. Credevo che fare convergere l’attenzione su tanti eventi di questo tipo mi avrebbe reso più semplice creare una rete nazionale da affiancare al C.D.O., Centro Diffusione Origami, storica associazione italiana.

Il mio obiettivo, allora, era di creare un contatto più capillare tra gli origamisti nel meridione, fino al punto di istituire un’Accademia degli Origami, per formarne altri. Le basi le avevo messo col progetto Or.M.A. – Origami Master Academy. Tuttavia, dopo 5 anni nel mondo degli eventi, mi stava stretta pure quella realtà: il tempo per dare voce alla vena narrativa e creare sculture più particolari con la tecnica origami, senza dovermi preoccuparmi di riuscire a venderle, restava ancora poco, per i miei gusti. Mi trovavo assorbito tra mail da inviare, corsi, progetti da presentare e correggere, stand da allestire, locandine, comunicazioni social.

E così, nel 2018 ho iniziato a preferire l’originalità e l’immediatezza, proponendomi come artista di strada. 

C’è stata una figura che ti ha ispirato?

Sì. Akira Yoshizawa, grande maestro origamista e padre dell’Origami moderno.

Lui lasciò il suo lavoro per dedicarsi a quest’arte e pare che per 17 anni abbia venduto origami per strada, in Giappone. Quando lasciai la professione per dedicarmi a quest’arte, così come nei primi passi nella street art, in realtà ignoravo questo episodio della sua vita; perciò, mi piace ricordare che ne ho inconsapevolmente seguito le orme.

L’azione consapevole, invece, è stata quella di cercare la mia personale risponda a questa domanda che il maestro Yoshizawa rivolse a sé stesso: “Quale differenza voglio fare nell’Origami?”.

Considera che parliamo di un uomo che ha inventato i simboli dei diagrammi – le istruzioni per fare origami – ed ha creato più di 50.000 modelli da solo. E tra questo fatto, la presenza di altri eccellenti artisti origamisti, e che, comunque, il mio sogno è quello di fare lo scrittore, beh… mica facile trovare una risposta. Anche perché, come dicevo prima, l’amore per l’Origami è cresciuto tantissimo, tanto che alcune persone, con affettuosa semplicità dicevano di me, presentandomi ad altri: lui è l’uomo degli origami.

E tu, Alex, l’hai poi trovata, questa risposta? Quale differenza vuoi fare nell’Origami?

Dell’Origami, finora, sono stati considerati gli aspetti ludici, estetici, tecnici, le applicazioni didattiche di geometria e matematica, ingegneristiche e di progettazione di interior design e fashion design.

Che mi risulti, nessun artista unisce in modo sistematico, come amo fare io, la creazione di origami ad una propria componente narrativa originale, partendo dallo sviluppo di un concetto invisibile reso visibile attraverso una scultura origami; o, viceversa, partire dalla creazione di una scultura e poi fare una sorta di indagine interiore, “interrogare” la scultura per chiederle: “Cosa mi stai comunicando?”.

E c’è un luogo dove tutto questo, a mio avviso, può accadere in modo naturale, creando nuovi modi di interagire con il pubblico: il teatro.

Avendo frattanto realizzato che molti miei testi, ancora inediti, ben si prestano ad essere interpretati a teatro, in attesa di capire come arrivare in palcoscenico con opere che uniscano mie sceneggiature originali e scenografie origami, il prossimo cambiamento che immagino nella mia evoluzione artistica è quello di strutturare un ciclo di performance teatrali di strada recitando dei miei monologhi satirici. Nel frattempo, comunque, continuo a portare avanti le mie incursioni poetiche, esibizioni tra origami e, appunto, poesie.

 La tua esibizione mi ha affascinata. Ho visto una gru origami prendere vita. Piegando un piccolo foglio senza guardarlo, mentre interpretavi una tua poesia. C’è una scelta precisa dietro tutto ciò?

L’Origami, secondo la tradizione, arriva tra noi uomini come dono dei Kami, gli spiriti divini venerati nello Shintoismo e, nel tempo, assume una funzione di dono tra persone, per poi diventare dono a sé stessi, nel senso di offrirsi del tempo per quella che, di fatto, è una meditazione in azione.

Le mie incursioni poetiche raccolgono questi tre momenti.

Ricordi la posizione delle mie braccia durante l’esibizione? È verso l’alto. Rappresenta un silenzioso simbolo di quest’arte come dono delle divinità all’uomo. Una volta concluso l’atto performativo, la gru origami, simbolo di pace nel mondo, arriva alla persona che mi ha dato l’opportunità di esibirmi.

È la fase del dono agli altri. Fase che, in questo caso, è anche dono a me stesso, come meditazione in azione. Prima di iniziare, infatti, anche se pochi se ne accorgono, preparo me stesso in tal con una respirazione consapevole, come nella tradizione della meditazione Vipassana. 

La tua espressione artistica è sincera, coraggiosa. Dietro la tua scelta di vita ci sono una profonda volontà e, se vogliamo, anche fede. C’è una relazione tra le tue opere e la religione?

Per me, innanzitutto, creare è un atto spirituale, frutto di un processo interiore.

A volte o spesso, le mie opere hanno un’esplicita relazione con la spiritualità, e tuttavia mai con la religione, pure quando affronto temi tipici di una specifica religione.

Mi spiego meglio. Una religione ha una dimensione circoscritta, presuppone un dio definito, mentre la spiritualità è una sfera più aperta, per me. Come scrissi in un aforisma di Semi di Luce: “Dio non ha nomi. I nomi portano guerre.” Chi sia questo spirito, Gesù, Buddha o Maometto, insomma, ad oggi non mi importa. Per me, Dio potrebbe anche chiamarsi Pippo. Ed è un’affermazione forte, collegata al mio vissuto, considerato che dai 31 ai 33 anni, sospesa l’attività forense, ho fatto un’esperienza in seminario.

Da anni, ormai, non partecipo ad attività religiose e, per rimanere comunque in tema, mi ritrovo in sintonia con l’antica concezione dell’artista inteso come ponte fra l’umano e il divino. A modo suo, in senso naturalmente diverso da quello religioso, un artista è un pontefice, un costruttore di ponti: oltre che tra l’umano ed il divino, tra uomini e con sé stesso, tra luce e ombra, conscio ed inconscio, tecnica e talento, aggiungo io.

Il ruolo degli artisti è cogliere la bellezza del mondo, della propria e altrui esistenza, esprimerla per “restituirla” al mondo trasformata a modo loro, per me.  Cosa vuol dire, per te, essere un artista?

Me lo sono chiesto più volte e dubito esista una definizione valida per tutti.

C’è chi sostiene che un’artista è tale in relazione al suo pubblico, ovvero presuppone un pubblico che lo riconosce come artista.

Per me, sarebbe assurdo tanto quanto sostenere che Van Gogh “diventò” artista quando si affermò come tale nell’immaginario collettivo, peraltro con un riconoscimento postumo. Banalmente potrei dire, allora, che l’artista è chi fa opere d’arte.

Questo sposta l’attenzione a un’altra domanda: in generale, che cos’è un opera d’arte? E nel caso dell’Origami, in particolare? Volendo fare una provocazione per l’arte del piegare la carta, allora chiunque prende un foglio di carta e lo piega, fosse pure carta igienica, è un’artista?

E quindi, per te cos’è un’opera d’arte?

Anche qui, dubito esistano risposte “giuste”.

Dal mio punto di vista, in ogni caso, prescindendo da valori estetici e commerciali, è opera d’arte ciò che emoziona e comunica un messaggio che fa riflettere. Un’opera d’arte, per me, raramente lascia indifferenti. A volte, tuttavia, il messaggio dell’artista è d’avanguardia, in anticipo rispetto alla più diffusa sensibilità della società contemporanea, o apertamente controcorrente con il pensiero della massa. E qui sta uno dei fattori scoraggianti: quella massa che magari lamenta la scarsa presenza di originalità tra noi artisti, quando si tratta di mettere mano al portafoglio preferisce “premiare” con un acquisto l’artista omologato, che fa tendenza, di solito, a meno che l’artista stesso, o chi per lui, non è stato bravo a vendersi. 

Creare e vendere arte: che relazione?

Premesso che ignoro se sia vero, in un corso di marketing mi insegnarono che vendere deriva dal latino e vuol dire “dare valore”. Inteso così, trovo che vendere un’opera d’arte, cioè dargli valore, sia la cosa più bella che un’artista possa fare, seconda solo all’attività creativa.

E pur sapendo che è utopia, vorrei un mondo in cui chi acquista un’opera d’arte lo faccia solo perché attratto dalle emozioni e riflessioni che gli suscita e fosse lui a fare una precisa proposta economica, che l’artista può riservarsi di accettare o meno. In questo modo, anziché mercanteggiare sul prezzo, come spesso si fa con gli artisti emergenti, forse si potrebbe capire quanto possa risultare difficile determinare il prezzo di un’opera, al di là di calcoli che trovo sterili, perché la mercificano come un qualunque prodotto di mercato. E in questo mondo, in cui si vuole dare un prezzo a tutto, provate a “prezzare” un’emozione e… beh, la riuscireste ad apprezzare ancora allo stesso modo?

Oggi più che mai, per me, oltretutto, per ciò che sa suscitare emozioni genuine, più o meno vibranti e, magari, anche contrastanti, non c’è prezzo a pagare.

Cos’è l’atto creativo per te? È una necessità?

Una volta feci un esempio a mia madre: davanti all’alternativa tra non respirare e non fare arte, io tratterrei il respiro. Nel senso che posso trattenere per un po’ il respiro, come tutti, ma non posso trattenermi dal fare arte. Per me, fare arte è vitale, è un soffio di vita ed un respiro di eternità che si incarna. Essere un’artista, insomma, è qualcosa che pervade veramente ed interamente l’esistenza.

E creare, con tutto il travaglio che precede e conduce l’atto creativo, è un’esperienza intensa come immagino possa essere, per una donna, partorire un figlio. Noi artisti trasmettiamo qualcosa di noi in un oggetto fuori da noi, riversiamo parte del nostro mondo interiore nel mondo esterno a noi, un po’ come una donna che dà alla luce una nuova creatura dopo averla custodita in grembo. 

Percepisci le tue opere come parte di te che offri agli altri, o che si separa irreversibilmente da te?

Condividere è “dividere con”, perciò l’atto di separazione, per me, è solo apparente. È uno scambio, una circolarità di energie che arricchisce tutti, artista e pubblico.

Molte mie opere, peraltro, nascono proprio da curiosità che si attivano in me attraverso il confronto con gli altri. Ascoltarli mi risveglia la “magia” dentro. È un rapporto di dialettica.

Ci sono momenti in cui mi concentro su di me, momenti in cui sento di dover restare concentrato sull’altro e  momenti in cui mi sintonizzo su entrambi i fronti.

Come artista avrai affrontato diversi tipi di difficoltà. Qual è stata quella più grande, finora, nel tuo percorso?

Come ho imparato a mie spese, al di là dell’impegno personale, al netto di quanto detto prima, trovo una difficoltà insuperabile nel dialogo artista-pubblico, ciò presupponendo la disponibilità dell’altro – sempre più rara – tanto all’ascolto di quel che l’artista ha da comunicare quanto delle emozioni suscitate. Tutto ciò richiede, nell’altro di turno, tempo, attenzione, curiosità, conoscenza di sé o, quantomeno, disponibilità a conoscersi di più.

Ecco perché, pur riconoscendola come un dono universale, sono arrivato alla conclusione che l’arte è rivolta a tutti… pur non essendo “destinata” a tutti. Questa, ad oggi, è la mia più grande difficoltà, perché vorrei comunque dare tutto me stesso a tutti e soffro per il fatto che l’arte che propongo – e il modo in cui la propongo – trova soltanto una nicchia di persone ben disposte e sensibili. 

In occasione del nostro incontro, mi hai salutato in un modo molto particolare: “Buona piega degli eventi!” È solo un gioco di parole o c’è una precisa filosofia dietro questo saluto?

Entrambe le cose.

Come sappiamo, ci sono eventi difficili da vivere. Tuttavia, lo stesso evento, anche se il fatto in sé rimane quello, visto da altre angolazioni, può cambiare. Per citare un altro aforisma di Semi di Luce: “Il cambiamento inizia da uno sguardo. Scegli bene allora, dove puntarlo.” Anche perché, come un foglio di carta, pur rimanendo ciò che è, può diventare un origami, così noi, a partire da uno sguardo, anziché arrenderci davanti a eventi che prendono una brutta piega, possiamo dargli una buona piega degli eventi e fare, della nostra Vita, l’origami più bello.

Luciana Cicirelli

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