Caos Sahel – Il colpo di Stato perpetrato nei giorni scorsi in Burkina Faso non è un fulmine a ciel sereno ma è sintomatico dell’instabilità diffusa in quest’area.
Intervista a Edoardo Baldaro, ricercatore di politica internazionale dell’Université libre de Bruxelles e presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa
AGI – Il colpo di Stato perpetrato nei giorni scorsi in Burkina Faso non è un fulmine a ciel sereno ma è sintomatico dell’instabilità diffusa nel Sahel, teatro di un impegno militare decennale dell’Occidente contro il terrorismo jihadista, che invece si è rafforzato. Una situazione di debolezza che rischia di aprire le porte ad altri Paesi che guardano con interesse a quest’area ricca di risorse minerarie. Ed è il caso della Russia, ma anche della Turchia.
È la lettura del ‘caos Sahel’ fatta all’AGI da Edoardo Baldaro, ricercatore di politica internazionale dell’Université libre de Bruxelles e presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa con assegno della Fondazione Gerda Henkel.
Partendo dagli ultimi fatti di cronaca – il colpo di stato militare a Ouagadougou e la destituzione del presidente eletto Roch Marc Christian Kaboré – lo studioso esperto di Sahel riferisce che in realtà era nell’aria dallo scorso novembre, quando nell’esercito e l’opinione pubblica la rabbia nei confronti del capo dello Stato ha raggiunto il suo apice a seguito del massacro di Inata, nel Nord-Est.
In tale occasione combattenti affiliati ad al-Qaeda avevano attaccato un accampamento dell’esercito burkinabé, uccidendo 53 soldati che indagini successive avevano mostrato essere stati lasciati praticamente privi di vettovagliamento, armi e sostegno logistico. Un primo tentativo di colpo di stato è stato, inoltre, sventato solo pochi giorni fa, l’8 gennaio.
“Più in generale il golpe può essere visto come la conseguenza diretta di due dinamiche: da un lato, la completa delegittimazione del presidente Kaboré agli occhi della maggioranza delle popolazione burkinabé, che accusava il presidente di non fare nulla per opporsi alla montante insicurezza nel paese” sottolinea Baldaro. D’altra parte è entrata in gioco anche la profonda insoddisfazione all’interno dell’esercito, a cui Kaboré aveva provato a tagliare fondi e sottrarre potere, non fidandosi appieno dell’istituzione che aveva ‘governato’ il Paese durante i 40 anni precedenti, e che aveva provato a rovesciare il potere civile una prima volta già nel 2015.
Un déjà vu’ del Mali
Per molti osservatori e studiosi, incluso Baldaro, quanto accaduto in Burkina Faso richiama allo scenario ‘déjà vu’ nel confinante Mali, dove sono stati perpetrati ben due colpi di stato militari, tra il 2020 e il 2021, e dove il potere è tutt’ora nelle mani di una giunta militare che al momento non intende condividerlo con i civili, per questo motivo sanzionata dalle istituzioni regionali ed internazionali.
“Allargando lo sguardo al Sahel, effettivamente la fragilità e la delegittimazione cui sono andate incontro le istituzioni degli Stati della regione costituiscono un primo fattore di instabilità e di insicurezza endemica, alimentato inoltre dal perpetuarsi di pratiche di governo spesso predatorie e repressive nei confronti di alcune minoranze da parte delle élites al potere” analizza il ricercatore della Sant’Anna e dell’ULB.
L’altro elemento altrettanto centrale nella comprensione delle cause del caos nel Sahel riguarda la militarizzazione della regione avvenuta nel corso dell’ultimo decennio, sulla scorta delle politiche di contrasto alle insorgenze jihadiste promosse dai partner europei degli Stati saheliani. O meglio, per Baldaro i chiari limiti di tale intervento risiedono proprio nell’eccessiva attenzione alla dimensione puramente militare della crisi, e l’incapacità di modificare in profondità le pratiche di governo disfunzionali adottate dagli Stati locali.
“Questi due limiti hanno generato un circolo vizioso di violenza, impunità e mancata attenzione ad altre questioni connesse ai conflitti nell’area – tra cui cambiamento climatico, sottosviluppo, assenza di qualsiasi forma di servizio pubblico in quasi tutte le aree periferiche del Sahel – che ha finito con il rendere vani gli sforzi internazionali di contenimento della crisi” valuta l’esperto di Sahel.
Gli effetti del ridimensionamento militare della Francia
Sul fronte degli interventi militari europei nella regione, equilibri e dinamiche sul terreno stanno cambiando dopo il ridimensionamento della storica presenza militare – ma non solo – della Francia, ex potenza coloniale, che al momento sembra aver tirato i remi in barca, anche per la prossima scadenza delle presidenziali sulla quale si concentrano molte delle attenzioni dell’Eliseo.
In un bilancio dell’operato francese nella regione, Baldaro fa notare che a livello tattico l’Opération Barkhane ha ottenuto anche oggettivi successi, avendo eliminato solo nell’ultimo anno i capi rispettivamente di al-Qaeda nel Maghreb Islamico e dello Stato Islamico nel Grande Sahara, ma non ci si è mai dotati degli strumenti necessari a risolvere, o almeno a mitigare, le cause profonde della crisi nell’area. Peggio ancora, molto spesso, la ‘montée en puissance’ degli eserciti locali sostenuti dalla Francia e da altri Paesi europei, tra cui l’Italia, si è tradotta in operazioni militari che hanno fatto vittime e commesso abusi contro le popolazioni civili. Queste popolazioni sempre di più hanno finito col rivolgersi proprio ai gruppi armati jihadisti per ottenere protezione e contrastare l’operato di Stati percepiti ormai come nemici.
Il sentimento antifrancese, già presente nell’area per ragioni storiche, si collega proprio a queste dinamiche. “Da un lato, 10 anni di intervento militare transalpino non sono riusciti a risolvere la questione della presenza jihadista nell’area, che si è invece rafforzata – evidenzia l’analista – .Dall’altro, la Francia, e l’Unione Europea di riflesso, sono visti come i garanti e i partner privilegiati di regimi inefficienti e corrotti, e come tali devono essere allontanati dalla regione”.
Al momento, i gruppi jihadisti attivi nel Sahel si dividono in due macrogruppi o coalizioni: lo JNIM, affiliato ad al-Qaeda e particolarmente forte in Mali, pur essendo presente anche in Burkina e Niger. Lo Stato Islamico nel Grande Sahara, che come lo JNIM ha i suoi bastioni nella regione delle tre frontiere (Mali-Niger-Burkina), è particolarmente presente nella regione nigerina di Tillabéry. A questi due gruppi si aggiungono l’ISWAP, la branca dello Stato Islamico che agisce intorno al bacino del Lago Ciad. “Nonostante siano attraversati da divisioni interne e abbiano cominciato almeno da un paio d’anni a farsi la guerra tra loro, entrambi questi gruppi non sono probabilmente mai stati tanto potenti e radicati quanto sono oggi” avverte Baldaro.
Due gruppi Jihadisti attivi
Infatti negli ultimi anni entrambi si sono evoluti, diventando gruppi dalla natura ibrida: al contempo gruppi jihadisti e insorgenze in grado di intercettare ed alimentare istanze politiche e rabbia della popolazione locale. In gran parte del Mali centrale e del Nord, o ancora nel Burkina settentrionale o nel Niger occidentale, questi gruppi controllano di fatto ampie porzioni di territorio, applicano forme di sharia diluite con forme di governance tradizionale, forniscono servizi, e amministrano la giustizia. “Con questo non voglio assolutamente negarne la natura profondamente violenta e intollerante, né suggerire che le popolazioni locali stiano ‘meglio’ sotto il controllo jihadista, ma un contrasto efficace a questi gruppi deve passare dalla comprensione della loro natura attuale” insiste l’esperto di Sahel.
Sulla linea di fronte del controterrorismo c’è proprio l’Italia, Paese europeo che più ha aumentato nel corso degli ultimi 3-4 anni il proprio impegno nel Sahel, in termini di risorse diplomatiche, economiche e militari. Ha aperto o sta istituendo ambasciate in Niger, Mali, Ciad, e Burkina, ci sono state visite nella regione da parte dei ministri Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini, dell’allora primo ministro Giuseppe Conte, ed è italiana la nuova rappresentante speciale dell’Unione Europea per il Sahel, l’ex viceministro Emanuela Del Re. Ma soprattutto, l’Italia ha lanciato a partire dal 2018 una missione di cooperazione militare, la Misin, in Niger, e il contingente italiano, il secondo per importanza dopo quello francese, sta terminando proprio in questi giorni il proprio dispiegamento in Mali, all’interno della cornice offerta dalla Task Force Takuba.
“In tal senso, le recenti evoluzioni politiche nell’area potrebbero dover spingere Roma a operare un almeno parziale ripensamento del proprio impegno, aprendo un dibattito riguardo a come gestire i rapporti con regimi emersi da colpi di stato militari, così come sta avvenendo già in Germania o in Svezia” prospetta Baldaro che col collega della Sant’Anna, Luca Raineri ha curato il libro “Jihad in Africa: Terrorismo e Controterrorismo nel Sahel”, prossimamente in uscita per il Mulino edizioni, con contributi di studiosi, esperti e ricercatori tutti italiani.
Il controllo dei flussi migratori
Oltre alla lotta al terrorismo di matrice jihadista, nel Sahel si giocano altre partite che concorrono a spiegare perché agli occhi dei decisori europei la regione ha assunto sempre più importanza nella politica estera dell’Ue, fino a diventare centrale. Un interesse costante riguarda il controllo dei flussi migratori che transitano dal Sahel centrale, dal Niger in particolare, verso la Libia lungo la rotta del Mediterraneo centrale, fino alla coste maltesi e italiane. Questi flussi hanno catturato a lungo l’attenzione italiana ed europea, soprattutto durante la cosiddetta crisi migratoria del 2014-2015, con l’Ue che di fatto ha esternalizzato la gestione delle proprie frontiere meridionali a questi Paesi, stringendo accordi di cooperazione tesi a bloccare questi flussi prima che giungessero in Libia. Negli ultimi anni i numeri sono effettivamente diminuiti, anche se non solo a causa delle politiche europee, che d’altro canto hanno cominciato a generare problemi di altra natura in diverse aree, soprattutto quelle transfrontaliere del Mali e del Niger. “I commerci transfrontalieri di natura informale, ma non di beni illegali, erano fondamentali per il sostentamento economico delle popolazioni locali, ma ora sono messi gravemente in difficoltà dal rafforzamento dei controlli” riferisce lo studioso impegnato in frequenti missioni sul campo.
Lo sfruttamento delle risorse minerarie
L’altra posta in gioco è senz’altro lo sfruttamento delle risorse minerarie, anche se il Sahel non è la regione africana più ricca di materie prime che fanno gola all’Occidente e alle altre potenze mondiali. Tuttavia la regione, vasta quanto l’intera Europa, possiede diversi giacimenti di grande importanza e interesse anche agli occhi degli attori internazionali: uranio in Niger, oro in Burkina Faso e Mali, litio in Mali, rame e ferro in Mauritania. L’uranio nigerino è stato per decenni un monopolio di fatto della società francese Areva, anche se nell’ultimo decennio la Cina si è garantita un sempre maggiore accesso a tale risorsa. Pechino risulta essere il principale partner minerario della Mauritania, mentre l’oro burkinabé e maliano sono estratti principalmente da società australiane, canadesi e inglesi.
A queste attività di estrazione industriale si è affiancato in questi due Paesi e anche in Niger, un vero e proprio fiorire di miniere artigianali, spesso gestite da gruppi criminali o anche da singoli cercatori d’oro che finiscono col creare contesti di estrema competizione e violenza in alcune regioni dell’area, in cui stanno cominciando a penetrare anche i gruppi jihadisti. Infine il litio maliano rimane poco sfruttato, ma di grande interesse anche per nuovi attori, tra cui la Turchia e la Russia. “In generale, l’idea che la comunità internazionale sia soprattutto interessata a depredare i propri Paesi delle loro ricchezze naturali, è uno dei discorsi più diffusi e potenti che alimentano le proteste delle popolazioni locali nei confronti degli attori stranieri che stanno intervenendo in Sahel” dice ancora il ricercatore italiano.
In conclusione Baldaro evidenzia che “è proprio la centralità che il Sahel – e per estensione una parte del Nord Africa e la Libia in particolare – ha assunto agli occhi dei decisori europei che ha effettivamente creato le condizioni per cui la regione diventasse un terreno di competizione tra diverse potenze”. Mentre venti di guerra soffiano sull’Europa orientale per la crisi in Ucraina, la Russia sta avanzando le sue pedine anche nel Sahel, con il dispiegamento dei mercenari di Wagner in Mali, sfruttando il raffreddamento dei rapporti tra il regime di Bamako e Parigi.
Mosca sta così tentando di ampliare la propria sfera di influenza in un’area in cui la leadership europea appare sempre più in difficoltà. Nel contempo va tenuto d’occhio anche l’attivismo turco nella polveriera Sahel.