Markus Krienke
«Sono certo che tutti insieme raggiungeremo qualunque obiettivo. Questa è la mia certezza, non è una speranza, né un prognostico» – questa frase, pronunciata il 30 marzo scorso, è stata la “premessa” del primo anno di Draghi alla guida del governo, ed è diventata infine la chiave per la rielezione di Mattarella: sostanzialmente, essa fu infatti ribadita dallo stesso Draghi un mese fa chiedendo unità della coalizione del governo nell’elezione del Presidente della Repubblica.
E ciò che ha fatto ricompattare in “zona Cesarini” la coalizione era la paura, soprattutto di Letta e di Renzi ma anche di Berlusconi, che non solo qualsiasi altro nome che Mattarella (e, come mera ipotesi, Amato) avrebbe spinto a Draghi a lasciare, ma anche nel vortice dei “nomi bruciati” potesse finire Draghi stesso. Così, nei confronti dell’incapacità dei partiti e dei loro leader di trovare una vera unità politica, a uscirne rafforzato è Draghi e, non a caso, i “draghiani” Di Maio e Giorgetti, che all’interno dei loro partiti Movimento 5 Stelle e Lega sono riusciti a formare un’alternativa moderata. Il vecchio e nuovo presidente del Consiglio certamente non ha centrato il suo obiettivo di diventare capo dello Stato, ma con la conferma di Mattarella ha ottenuto di poter realizzare nel secondo anno del suo mandato molto di più il suo “stile” fatto di determinismo e sobrio pragmatismo nel realizzare le riforme, vincere la battaglia contro la pandemia e mettere in salvo il Pnrr assicurando i soldi del Next Generation EU.
Quel “tutto insieme”, d’ora in poi, dopo la “resa” quasi in diretta TV dei partiti e dei loro leader, sarà necessariamente interpretato da Draghi stesso.
I leader che maggiormente si sono depotenziati da soli, Salvini e Conte, dovranno fare i conti con due figure che nell’anno di Draghi sono diventati i nuovi punti di riferimento: appunto Giorgetti e Di Maio. Il populismo gialloverde, il “grande esperimento” italiano uscito dalle urne del 2018, è già a capolinea. Ma nemmeno Letta, sostanzialmente con la stessa strategia “di passività” con cui il socialdemocratico Olaf Scholz ha vinto le elezioni tedesche, è riuscito a diventare il kingmaker. Anzi, con il riaffiorare della vecchia coalizione con i Cinquestelle nell’appoggio della Belloni, per un attimo ha traballato anche lui, e solo la prudenza di Renzi e Berlusconi hanno evitato il rischio di perdere davvero Draghi al governo. Fattore emblematico della debolezza dei partiti è stato del resto anche la candidatura grottesca (non per la candidatura in sé ma per il modo in cui è stata affrontata) di Berlusconi: tuttavia il leader di Forza Italia, dopo aver indicato Draghi già per la presidenza della BCE, ora con il suo sì al Mattarella-bis di nuovo ha messo la sua zampa decisiva per una conferma del vecchio e nuovo Presidente del Consiglio.
Altrettanto vero è però che un Draghi capo dello Stato sarebbe stato difficilmente digeribile per Berlusconi, per cui ha connesso il suo “passo indietro” dalla candidatura con il fermo veto alla “promozione” di Draghi. Come alla BCE, ora alla presidenza di un governo che dovrà affrontare un programma serrato di riforme e decisioni cruciali per il futuro del Paese, certamente Draghi esprimerà al meglio le sue capacità tecnico-finanziarie per il Paese.
Così, la conferma di Mattarella è sostanzialmente la conferma di Draghi ed è nata dalla responsabilità per il prossimo futuro del Paese che il Parlamento ha espresso, attraverso tutte le votazioni in un crescendo sempre più percepibile, di fronte allo spettacolo della goffaggine dei partiti e dei leader. Come la Frankfurter Allgemeine Zeitung ha titolato già per commentare il risultato delle urne regionali nell’ottobre scorso, Draghi può essere considerato il “vincitore indiretto”.
Espressione azzeccata non solo perché richiama la dimensione politica che segna sempre di più la figura Mario Draghi, al di là della dimensione tecnica del suo carattere e del suo ufficio, ma anche perché nel suo ufficio di capo del governo ora è più forte che mai. Mentre lui non si è fatto tirare dentro le dinamiche partitiche durante le votazioni, mantenendo sempre la sua caratteristica distanza alla frenesia dei partiti, alla fine è stato il suo intervento personale dal Presidente Mattarella a convincerlo ad accettare il bis.
Avendo evitato di uscire leso da questa settimana difficile delle dinamiche spesso incalcolabili dei partiti, e anzi potendo contare ormai su un’autorità riconfermata, anche per Draghi stesso si prospetta però un anno non facile affatto. Le spaccature nelle coalizioni e l’evidente mancanza di compattezza all’interno dei partiti, con i loro leader che ormai sentono la pressione delle elezioni tra un anno, renderanno il lavoro di governo molto complesso.
Il secondo fallimento dei partiti dal 2018, dopo la messa al rischio dell’arrivo dei fondi europei che spianò la strada all’arrivo di Draghi, insieme alla prospettiva della diminuzione dei parlamentari di un terzo con le prossime elezioni, creerà tensioni significative. Ciò che abbiamo visto nella settimana scorsa n’è un effettivo presagio. E ora, oltre le riforme e la gestione del Pnrr sarà da realizzare una riforma della legge elettorale con un probabile ritorno al proporzionale, e dal di fuori della coalizione di governo si sentirà forte l’opposizione di Giorgia Meloni.
Per adesso, però, prevale il sollievo per la responsabilità dimostrata dai grandi elettori, che hanno confermato il secondo presidente-bis di seguito – va segnalato però il fatto che il Pd ha proposto a dicembre al Senato un disegno di legge che avrebbe inserito nella Costituzione il divieto del bis per il capo dello Stato – e quindi di “doppio bis” Mattarella-Draghi. Così hanno dato verso l’Europa e il mondo il segnale di un’Italia stabile e affidabile.
Ancora una volta si è dimostrato che è il contesto specialmente europeo a conferire al Paese una stabilità politica che da solo mette continuamente a repentaglio. Certamente ciò non deve realizzarsi a discapito della democrazia e del bisogno di meccanismi istituzionali nonché di partiti funzionanti e affidabili. In questo senso, nella settimana scorsa, durante l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, abbiamo visto squillare senz’altro un campanello d’allarme.
Positivo, invece, è stato il largo interesse pubblico alle “dinamiche da conclave” intorno a Palazzo Montecitorio: il popolo si è stretto, in questo momento di crisi, intorno al suo Presidente come garante di stabilità. L’attenzione mediatica tra televisione e social media e la documentazione capillare hanno però anche dato espressione di che cosa significa la trasformazione in atto della società in “infosfera” e del coinvolgimento della stessa politica in queste dinamiche.
Certe frenesie, che alla fine si sono rivelate nocive, specialmente nel nominare a raffica e poi bruciare grandi nomi di autorità e rispetto nazionale, risultano probabilmente da questa nuova “disintermediazione” mediatica tra i cittadini e la politica. Ciò deve portare innanzitutto i partiti a riflettere come salvare la politica dalla sua “svendita” populista. In ogni caso, per gli Italiani seguire queste dinamiche era anche una distrazione tanto attesa dopo due anni di dibattiti intorno al Covid, con l’unica eccezione degli Europei nell’estate scorsa.
Ma intanto, mentre la politica dovrà riprendersi dalle varie ferite della settimana scorsa, arriva per fortuna San Remo…