La Russia di oggi è una civiltà complessa e variegata. Si pensi in letteratura agli estremi e al vissuto di personalità come Evgheni Evtushenko e Solgenitsin. Su Evtushenko voglio soffermarmi. Il quale resta un poeta che ha capito tardi che il realismo non ha poesia. È morto a Tulsa L’1 aprile 2017. Poeta del segno e del senso in una Russia dalle tradizioni tolstoiane, ha saputo raccogliere la testimonianza di un post leninismo che sé stretto in un passaggio pre e post stalinismo. Un tempo in cui la poesia aveva un peso come valore del pensiero ma anche come provocazione.
La poesia ha saputo sviluppare anche la sua rivoluzione. La letteratura nella sua manifestazione di desiderio di verità. Una diaspora che ha visto, nel comunismo post staliniano, le contraddizioni di un Evtushenko misurate con la visione tragico religiosa di Solgenitsin. Sosteneva: “Lo scopo della vita è la maturazione dell’anima. Non rincorrere quello che è illusorio, come la proprietà o la posizione. Tutte cose che vengono ottenute a spese dei nervi, decennio dopo decennio, e sono confiscate nella notte della caduta” (A. I. Solzhenitsyn).
Così Evtushenko: “Amare la Russia è felicità plurinfelice./Cucito a lei sono con le mie proprie fibre./Amo la Russia e il suo potere tutto vorrei amare,/ma ne/ho la nausea, vogliatemi scusare.//Non ho saputo vivere in modo irreprensibile, da saggio,/ma voi con debito di colpa rammentatevi/il ragazzino con albore di libertà negli occhi,/luminosa più che vivido raggio.//Essere imperfettissimo io sono,/ma, scelta la mia ora preferita – il primo albore,/Dio creerà di nuovo innanzi giorno/gli alberi dai raggi trapassati,/me stesso trapassato dall’amore”.La questione della letteratura russa apre diverse prospettive non solo letterarie. C’è sempre uno speculare filosofico che si intromette tra i linguaggi. Il percorso ortodosso ha una intensità che supera ogni forma di occidentalismo rituale nella letteratura. L’uomo è una dimensione dell’universale.
La letteratura russa, comunque, non può prescindere dal tema del “Sottosuolo”. Generazioni poetiche che si intrecciano e si cercano. La poesia russa ha una antica tradizione. Nulla può essere cancellato, rinnegato, allontanato. L’arte è sempre la dichiarazione di in popolo e di una civiltà. Solo i popoli fragile, leggeri, poveri cercano di scardinare le culture robuste e si autosuicidono.
Una tradizione che rinnova costantemente: “Non credo nel miracolo./Non sono la neve, ne una stella,/e mai più sarò, mai, mai più.//E, peccatore che sono, penso:/chi dunque sono stato,nella mia vita precipitosa/che cosa ho amato più della vita?//Ho amato la Russia con tutto me stesso:/i suoi fiumi in piena e coperti di ghiaccio,//il respiro delle sue casette,/il respiro delle sue pinete,/il suo Puskin,/il suo Stenka/e i suoi vecchi”.
Proprio in questi versi Evtushenko recupera una tradizione del verso europeo e lo rinnova. D’altronde Puskin è uno scavo inevitabile e a volte impercettibile, ma profondo e in Evtushenko è presente.
Era nato a Zima il 18 luglio del 1932. Un poeta che ha capito con ritardo la tragedia del realismo. Se Puskin è tale e Dostoevskij è lo scavo dei domini Tolstoj resta un conflitto perenne tra guerra e pace e Cekov nella ricerca dell’armonia vive l’inquieto. Ma Soleviev è un viaggio in una perenne inquisizione e Maiakoski è una terribile rivoluzione mancata. La grande Russia è l’immenso viaggio di una Russia grande.