Vanni Codeluppi: “Noto un abbassamento del livello della qualità dei messaggi, nel senso che i messaggi sono poco originali, poco creativi, non sorprendono il consumatore”.
AGI – “Pubblicità sgrammaticata non saprei, ma quel che è certo è che c’è uno scadimento proprio della qualità della comunicazione. Sta avvenendo ormai da alcuni anni ed è chiaro che la situazione di crisi determinata dalla pandemia ha peggiorato ulteriormente la situazione. Però si tratta di un processo degenerativo in corso da tempo”. A parlare con l’AGI è il professor Vanni Codeluppi, sociologo, studioso dei fenomeni comunicativi nel mondo dei consumi, dei media e della cultura di massa, ordinario allo Iulm di Milano. Il tema è la qualità e l’efficacia della comunicazione pubblicitaria che appare ogni giorno sui nostri teleschermi
“Già alla fine degli anni ’60 e per tutti i ’70 per noi la pubblicità non era il massimo” – scriveva nel 1995 Marco Giusti, autore televisivo (Blob), studioso di cinema e pubblicità, originale critico degli spot, nell’introduzione al suo Il grande libro di Carosello. “C’era la politica, c’era il cinema, c’era la musica, c’erano le ragazze. Non guardavamo nemmeno più la televisione, figuriamoci la pubblicità. Negli anni ’80 le cose erano un po’ cambiate. Il trash televisivo, specialmente d’annata, ci piaceva. La pubblicità diventava anche divertente, con tutti i suoi manichini della Milano da bere craxiana. La Tv cominciava a far sul serio, non avendo il coraggio di fare il cinema” mentre prima “continuavo a vedere Carosello come cinema da scoprire più che come televisione”.
Erano gli anni, quelli raccontati da Giusti, in cui – fino al 1964 – i Caroselli erano firmati da nomi forti e importanti del mondo autorale e culturale, come Mario Soldati, Steno, Ugo Gregoretti, Luigi Magni, Paolo e Vittorio Taviani, scrittori come Achille Campanile, Marcello Marchesi, Age e Scarpelli, Lina Wertmuller, Garinei e Giovannini, per dirne alcuni. Autori a tutto tondo, che firmavano storie che hanno lasciato il segno e sono rimaste ben scolpite nella memoria di chi è almeno over 60.
Poi è subentrata la stagione delle agenzie e dei copy, che hanno messo a segno anche loro successi memorabili. E oggi? Oggi la pubblicità si insinua ovunque, t’insegue, dalla tv ai telefonini, alle email. Anche i siti sono pieni. Messaggi rapidi, veloci, brevi. Ma quanto colpiscono e lasciano il segno? Spesso si tratta di sketch, scenette che vorrebbero essere comiche ma non lo sono, o battute e dialoghi talvolta senza senso con montaggi fuori misura e messaggi al limite dell’assurdo, sgrammaticati e anche confusi. È così?
Risponde Vanni Codeluppi: “Penso che l’Italia rispetto ad altri paesi avanzati si sia disallineato a partire dagli anni ’90. Fino ad allora eravamo abbastanza in sintonia, dopo di che c’è stato sicuramente l’arrivo della rivoluzione da un lato e poi della rivoluzione distributiva, nel senso che sono arrivati i grandi spazi di vendita. I supermercati, i centri commerciali, Ikea, quindi c’è stato un cambiamento fondamentale del ruolo della distribuzione, nel senso che questa è diventata più importante, da un lato, mentre dall’altro la rivoluzione digitale ha fatto sì che sia diventato più importante il rapporto diretto con il consumatore attraverso gli strumenti digitali, i social, e quindi la pubblicità è diventata un po’ meno importante. Anche se gli investimenti hanno continuato ad esser massicci anche in Tv. È cresciuto in questi anni di sicuro il canale digitale, ha perso la stampa, però sia tv che radio hanno tenuto abbastanza bene”.
Ma il livello s’è abbassato?
“Direi che un abbassamento anche dell’attenzione alla costruzione dei messaggi c’è stato. Proprio perché l’idea che è venuta avanti è stata quella di avere un canale più diretto con il consumatore e con anche la pretesa di conoscerlo meglio e di avere da lui un feedback, anche se a mio avviso tutto questo non è avvenuto più di tanto”.
Qual è il motivo di questo scadimento?
“Da questo punto di vista è stato esemplare il comportamento delle aziende soprattutto durante il lockdown. Nel senso che mi sembra che abbiano preso in giro un po’ i consumatori in quanto hanno dichiarato con messaggi molto retorici e pieni di emozioni di essere dalla parte del consumatore, ma alla fin fine le aziende hanno fatto ben poco per dimostrare al consumatore di essere dalla sua parte. Hanno semmai fatto affermazioni di principio molto retoriche. Hanno dimostrato, semmai, una certa lontananza dal consumatore”.
Professore, lei cosa nota nei messaggi pubblicitari?
“Noto un abbassamento del livello della qualità dei messaggi, nel senso che i messaggi sono poco originali, poco creativi, non sorprendono il consumatore. Sono spesso messaggi molto razionali, molto informativi, in situazioni familiari già viste, conosciute e pure banali. C’è poca attenzione, poco impegno nel cercare di costruire dei messaggi originali. Non dobbiamo dimenticare che la pubblicità è anche un’invasione nella vita quotidiana del cittadino-consumatore, quindi dovrebbe in qualche modo – in cambio dell’invasione – offrire anche un po’ di divertimento, di piacere, di originalità, sorpresa. Tutto questo c’era a mio avviso fino a tutti gli anni ’90 ma oggi un po’ si è perso, è raro. Gli unici messaggi che di solito vediamo con queste caratteristiche sono messaggi di aziende straniere come Apple, Nike o Adidas, e che usano lo stesso messaggio anche in Italia perché sono aziende multinazionali che ragionano in un’ottica globale, che fanno campagne internazionali”.
Ma la crisi è dovuta a mancanza di creatività, come lei diceva, o è anche mancanza di idee, che è anche mancanza di cultura, assenza di dibattito sociale?
“C’è anche questo. Ma c’è puree una sottovalutazione dell’importanza da parte della pubblicità della costruzione di una relazione con il consumatore. Viene considerata poco, quindi si investe poco in risorse, attenzione, tempo”.
C’è anche disattenzione nel consumatore per il messaggio pubblicitario?
“È chiaro che se ci si rivolge al consumatore con dei messaggi poco interessanti, anche il consumatore è meno interessato, è più distratto”.
Meglio il vecchio Carosello, allora?
“Certo, anche se non dobbiamo dare troppo peso o sopravvalutare Carosello, in quanto all’epoca era comunque l’unica forma di comunicazione che le imprese avevano a disposizione, nemmeno paragonabile con l’inflazione odierna di messaggi e spot”.
Però era un prodotto finito, storie a tutto tondo.
“Lo facevano a Cinecittà, fondamentalmente. C’erano i registi e i tecnici migliori di Cinecittà che si dedicavano al Carosello, gli autori. Gli attori più importanti dell’epoca, i cantanti, facevano tutti Carosello e tutta l’industria culturale in qualche modo guardava lì. La qualità c’era, contrariamente a oggi