Lunedì 5 aprile 2004, esattamente 18 anni fa, al pronto soccorso di città di Castello, moriva Maria Geusa, bambina di due anni, violentata e uccisa dall’amante della madre.
Ricostruiamo quei drammatici momenti in cui, una vita viene distrutta prima ancora di essere vissuta.
Al pronto soccorso, alle 13 e 30 del 5 Aprile del 2004, il caso più grave riguarda una bambina dai capelli castano scuro e occhi grandi che, a differenza di quelli che ogni bambino dovrebbe avere, ossia ricchi di vita e speranza, sono ormai spenti.
Il cervello della piccola infatti, si è già fermato. Dopo le 13 e 30 giunge la madre tra lacrime e disperazione.
“Che hanno fatto alla mia bambina?” urla, “Perché non è capitato a me!”. Il padre della vittima non è ancora stato rintracciato.
Stando così le cose, ci si chiede allora, chi sia quel signore con i capelli rossi e l’aria tesa, che passeggia nel corridoio.
Quell’uomo è Giorgio Giorni, imprenditore edile di San Sepolcro, uno dei ‘notabili’ della cittadina toscana. Era entrato con l’auto nel parcheggio del pronto soccorso alle 13 e 10. “Ha vomitato in auto”, aveva detto, tenendo fra le braccia quel corpicino avvolto in una giacca troppo grande. I paramedici a queste parole, si erano avvicinati alla vettura per esaminare il rigurgito, al fine di capire cosa fosse di fatto successo alla piccola Maria. Ma l’auto era pulita.
Non per nulla l’uomo si corregge, dicendo che era caduta mentre giocava ai giardinetti.
Alle 13 e 30 al pronto soccorso, giungono i carabinieri e la Polizia di Stato. L’attenzione è su Giorni e sulla mamma di Maria, Tiziana Deserto, 31 anni, casalinga di origini pugliesi.
I due rimangono soli qualche istante in una camera e a lei sfugge una frase: “Queste cose si vengono a sapere, sono cose da grandi!”. Una vicenda tanto agghiacciante quanto strana.
La donna scura in volto, pretende di vedere il referto.
Strano che una madre, appena sapute le gravi, gravissime condizioni in cui versa la figlia, abbia come principale preoccupazione, ciò che i paramedici hanno scritto sui documenti.
Per di più la donna, una volta letto il referto, lo restituisce alla dottoressa, commentando con una frase alquanto inquietante: “Così va bene”.
Già, va così “bene” che la figlia deve essere operata d’urgenza.
I medici dicono a Tiziana che la piccola ha un’ansa intestinale scoppiata da ricucire immediatamente.
Ma mentre gli infermieri preparano la bambina, la madre fa una richiesta a dir poco allucinante. Vuole vedere il corpo nudo di sua figlia, vuole controllarne l’addome e il basso ventre. Attonito, un infermiere ubbidisce senza fare domande.
Intanto Massimo Geusa, 32 anni, il papà di Maria, viene avvertito da un collega che Giorgio Giorni, il suo datore di lavoro, lo sta cercando. “Vieni in ospedale”, gli dice, con tono freddo e distaccato. Alle 17 Geusa è lì, in abiti da lavoro, sporco di calce e polvere e stravolto. Tiziana non può evitare di affrontarlo. “Ti ho detto una bugia”, confessa, “stamattina la bambina non è andata all’asilo, l’ha presa Giorni, è caduta mentre giocava”. Il marito non si arrabbia con la moglie, è stato sempre paziente con lei, quasi ad arrivare al punto di adottare una condotta remissiva, infatti non chiede perché avesse affidato la loro unica figlia all’uomo che da un anno, gli dava lavoro e che frequentava la sua casa ma sa perfettamente, che una caduta non può spappolare l’intestino di una bambina di due anni e intuisce che l’imprenditore ha fatto qualcosa alla figlia. Qualcosa di spaventoso ma ormai, conta solo la vita di Maria.
Dopo un’estenuante giornata, spenti i macchinari, si spegne anche la speranza di salvare la piccola.
Tiziana si lascia scappare una frase inquietante
“Voglio subito un altro figlio, un clone di Maria.”
Per capire cosa sia successo in quell’ospedale il 5 aprile di 18 anni fa, bisogna tornare indietro di un anno, quando la 30enne Tiziana e il marito vivevano in Latiano di Puglia, dove hanno trascorso i primi anni del loro matrimonio in casa dei genitori di lei.
I due vivono una crisi coniugale.
Tiziana si era infatti invaghita di un operaio portuale di Genova, tale Luca Zirino, al punto che la donna voleva fuggire con lui, lasciando marito e figlia in casa con i suoi. Solo l’intervento di quest’ultimo, Massimo Geusa, che aveva raggiunto i due in stazione, l’aveva fermata e persuasa a tornare alla sua vita familiare. Una vicenda che a Latiano aveva stuzzicato malelingue e di conseguenza il pettegolezzo, tanto da portare la coppia ad andar via da quel paesino della provincia in cui erano cresciuti.
Si trasferiscono a San Giustino, piccolo borgo a pochi chilometri da San Sepolcro, dove Geusa trova lavoro come operaio edile nella ditta di Giorni. Dapprima sono ospiti dei cugini di Massimo, poi si trasferiscono in una monocamera alla periferia del paesello.
Tiziana cambia ambiente ma no stile di vita, infatti, ha diverse relazioni telefoniche con alcuni uomini, ai quali racconta una realtà decisamente diversa dalla sua. Si presenta infatti, come la ricca figlia di un imprenditore locale, che versa tra agio, ricchezza e auto di lusso. Alla nuova amica, la vicina di casa Eloina Morales, una operaia di origini cubane che vive sola nella monocamera di fronte a quella dei Geusa, racconta del suo forte sentimento per Luca Zirino.
L’amica progetta di farlo venire a San Giustino, Tiziana gli manda anche dei soldi tramite vaglia. Zirino arriva nella cittadina Umbra, ospite della Morales. Anche questa volta, sarà Massimo Geusa che cercherà di salvare il matrimonio, riaccompagnandolo a Genova, a sue spese. Nonostante gli sforzi del marito di ricondurla a sé e alla famiglia, Tiziana continua a essere insoddisfatta della sua vita ed è in questa infelicità familiare che incontra Giorgio Giorni. Poco più che trentenne, Giorni ha sempre vissuto nella casa dei genitori a San Sepolcro. Non ha mai avuto fidanzate o compagne ufficiali, anzi, in paese tutti sanno della garconniere in cui consuma i suoi incontri amorosi e di essersi lasciato sfuggire altresì commenti misogini.
Quando Massimo, marito di Tiziana, è in cantiere, i vicini notano l’auto di Giorni Giorni parcheggiata davanti a casa Geusa.
Iniziano a girar voci su una presunta relazione tra Tiziana e l’imprenditore, che mostra particolare interesse per la piccola Maria, regalando giocattoli e peluche, mentre ai genitori regala un’auto aziendale, anche se non è l’unica gentilezza. “Gentilezze” che durano fino al 5 aprile 2004. Alle 7,30 di quel lunedì, Giorni telefona alla Deserto chiedendole di poter stare con la piccola Maria. La donna acconsente e alle 8 l’imprenditore è già davanti alla porta della monocamera. Prende la bimba, forse la porta nella garconniere. Sono quelle le ore in cui la bambina subisce ciò che mi nessuna creatura dovrebbe mai vivere. Alle 10 Giorni telefona alla Deserto, dicendole di raggiungerlo ai giardinetti di Piazza Ferri, perchè Maria sta male. Tiziana arriva alle 11. La figlia è distesa in auto, coperta dal cappotto dell’uomo. I due parlano, la madre non apre neanche lo sportello dell’auto, si limita a guardare la figlia dal finestrino. Poi se ne va, torna a casa a preparare da mangiare al marito, che sarebbe tornato per l’ora di pranzo. Alle 13, Giorni porta la piccola in ospedale.
Quando i carabinieri ricostruiscono la dinamica di questo orrore, vengono aperte due indagini: una per abusi sessuali e omicidio a carico dell’imprenditore marchigiano, l’altra per concorso anomalo in omicidio a carico della Deserto.
Massimo Geusa, nonostante tutto, sostiene la moglie durante il percorso giudiziario, udienza dopo udienza. Giorni, ammette di aver ucciso la bambina picchiandola e scuotendola forte, ma nega di averla violentata in quella e in altre circostanze. Tiziana Deserto nega la sua conoscenza riguardo gli abusi alla figlia – che i medici legali ritengono fossero cronici – e di aver affidato la piccola a Giorni, nella consapevolezza delle sue intenzioni.
La donna dice alla Corte di fidarsi di quell’uomo perché convinta che a breve sarebbero andati a vivere insieme.
I giudici non credono a nessuno dei due.
L’epilogo di questo scempio, avente come protagonista una vita violentemente stroncata prima di essere vissuta, è l’ergastolo a Giorgio Giorni e 15 anni di reclusione a Tiziana Deserto.
Vicende agghiaccianti che lasciano disarmati per la loro atrocità, disumanità e barbarie ma che portano altresì a farsi delle domande.
Umanamente ci si chiede il perché di simili condotte, che vanno ben oltre ogni terrificante forma di immaginazione e forse, una risposta esaustiva sulla cattiveria umana non si avrà mai.
Vicende in cui un’anima innocente, è vittima di nefandezze dei compagni della madri, in danno dei loro stessi figli.
Lo si è visto col piccolo Giuseppe, 7 anni, ucciso di botte dall’allora compagno della madre, Tony Essobdi Badre, che risponde dell’omicidio volontario del piccolo, del tentato omicidio della sorella di 8 anni e di maltrattamenti nei confronti dei due bambini e della terza sorellina, che oggi ha 5 anni. Valentina Casa, madre dei tre piccoli, 30 anni, è accusata di non avere fatto nulla per fermare le frequenti violenze del compagno e di non avere soccorso immediatamente i suoi figli quel giorno. Infatti, mentre il figlio era agonizzante sul divano, si era limitata a passargli la pomata sul volto anziché chiamare i soccorsi.
La situazione della donna potrebbe aggravarsi sulla base di quanto emerso nell’ultima perizia, infatti dal dibattimento in primo grado, era emerso che Giuseppe Dorice non si sarebbe potuto salvare. Ma ora, una nuova perizia, disposta dalla seconda sezione penale della Corte di Assise di Appello di Napoli posticipa l’ora della sua morte, ribaltando così questa tesi e che di conseguenza, potrebbe aggravare la posizione della madre, la quale chiamando i soccorsi, quindi, avrebbe potuto salvare suo figlio.
Altro abominevole caso, è quello di Evan Lo Piccolo, il bimbo di 21 mesi, massacrato di botte e ucciso il 17 agosto del 2020 a Modica, in provincia di Ragusa.
Il giudice ha concesso gli arresti domiciliari a Letizia Spatola, madre del piccolo. La donna, fino a quel momento detenuta nel carcere di Cavadonna a Siracusa, è accusata, insieme al compagno Salvatore Blanco, di omicidio volontario e maltrattamenti in famiglia. L’uomo resta in carcere.
Sulla base di simili orrori, sorgono altresì domande sotto l’aspetto giuridico.
Ad esempio, sul perché non abbia luogo una riforma concernente il concorso di persone, la quale preveda come aggravante di concorso il vinculo sanguinis, incluso il rapporto genitoriale per adozione, nel caso in cui a concorrere nella commissione del reato, è chi è di fatto unito alla vittima dai legami su menzionati.
Se un patrigno o una matrigna, che si macchia di barbare atrocità sul figlio del compagno o del coniuge, è condannato all’ergastolo, il compagno o il coniuge che concorre in simili abomini, violando per di più gli obblighi di cui all’art 147 cc, a quale pena dovrebbe andare incontro?
Giustizialismo o mera proporzionalità della pena?