Principale Attualità & Cronaca Violenza La violenza non ha divisa ma vittime

La violenza non ha divisa ma vittime

La violenza non ha divisa ma vittime
di Rita Lazzaro
Richard Moore, è stato incarcerato dopo l’uccisione mortale dell’impiegato di un minimarket Jamie Mahoney nel 1999, sarebbe dovuto essere giustiziato per fucilazione il 29 aprile, ma fortunatamente l’orrore, per adesso, è stato evitato.
All’inizio del mese di aprile, Moore aveva scelto la fucilazione, anche se ha affermato di ritenere che entrambe le scelte siano inaccettabili. “Credo che queste elezioni mi stiano costringendo a scegliere tra due metodi di esecuzione incostituzionali”, ha scritto in una dichiarazione depositata presso la Corte Suprema dello stato secondo il quotidiano della Carolina del Sud La Posta e il Corriere.
I piani per l’esecuzione di Moore in futuro non sono attualmente chiari e lo stato ha dovuto affrontare sfide legali ai suoi metodi di esecuzione.
A proposito di pena di morte oggi, 2022, 54 Stati continuano ad applicare la pena capitale nei loro ordinamenti, mentre 141 non l’applicano, di diritto o in pratica.
Il 15 novembre 2007 la Terza commissione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato con 99 voti favorevoli, 52 contrari e 33 astenuti una risoluzione, fortemente sostenuta dall’Italia, che chiede la moratoria universale della pena di morte. Ma è anche vero che nel 2020 un report del Consiglio d’Europa boccia l’Italia per i trattamenti inumani e degradanti a cui sottopone la popolazione carceraria, invitando a compiere alcune riforme come: «Abolire l’isolamento diurno e ripensare il 41bis».
Il Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura (Cpt) riporta infatti, una situazione molto critica delle nostre carceri sotto diversi punti di vista. Innanzitutto da quello del sovraffollamento. La situazione descritta dal comitato è confermata anche dai dati statistici forniti dal ministero della Giustizia: al 31 dicembre 2019, a fronte di una capienza regolamentare di 50.688 posti, sono 60.769 i reclusi presenti, di cui circa 10.000 in attesa di primo giudizio. A ciò si aggiungono, stando ancora al rapporto, «carenze materiali riguardanti essenzialmente i locali, docce fatiscenti e insalubri, la struttura spartana ed austera dei cortili di passeggio e in alcuni casi la qualità scadente del cibo».
Un’altra piaga è quella concernente i maltrattamenti fisici inflitti ai detenuti da parte del personale di polizia penitenziaria: il rapporto illustra alcuni casi di percosse (anche nei confronti di un detenuto sottoposto a regime “41-bis”).
A questo dramma se ne aggiunge un altro, che è in continuo aumento, ossia quello delle decine di suicidi e migliaia di aggressioni sulla popolazione carceraria italiana, vittima di agenti di polizia penitenziaria. Sono, infatti, 35 i suicidi e 2.250 le aggressioni subite negli ultimi cinque anni dai poliziotti penitenziari. A proposito di suicidi, giusto e doveroso ricordare altresì i suicidi che avvengono all’interno dell’Arma.
Il suicidio è infatti la prima causa di morte tra le forze dell’ordine.
Negli ultimi dodici mesi il numero degli agenti che si sono tolti la vita è stato in forte crescita.
Si parla di 355 agenti delle forze dell’Ordine (Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria e Polizia Locale) che si sono tolti la vita dal 2014 al 2021 in Italia, secondo i dati raccolti dall’osservatorio nazionale suicidi ONSFO.
Numeri allarmanti se si considera che il dato è il doppio è di quello relativo ai suicidi nella popolazione generale. Le principali vittime sono poliziotti e agenti penitenziari, anche se negli ultimi dodici mesi c’è stata una crescita importante tra i carabinieri.
Secondo quanto detto da Marco Strano, responsabile del dipartimento di psicologia militare e di polizia di UNARMA: “In Italia il suicidio è la prima causa di morte tra gli agenti delle forze dell’ordine, supera il 50 per cento dei casi. È maggiore anche agli Stati Uniti dove c’è un tasso di aggressione più alto, ma i suicidi sono nell’ordine del 30 percento.” E continua spiegando che:
“Nel 90% dei casi si tratta di depressione. Nella maggior parte dei casi, i sintomi sono subdoli, l’operatore, per paura di vedersi bloccata la carriera, sceglie il silenzio ed allora la malinconia cresce dentro di lui finché matura l’idea del suicidio”, racconta il responsabile del dipartimento di psicologia di UNARMA.
Violenza sui detenuti e violenza sulle forze dell’ ordine: due facce della stessa medaglia, che gran parte delle volta si paga col suicidio degli stessi.
Di tutto questo, precisamente per quanto concerne la violenza sui detenuti, ne parliamo con Leopoldo Di Nanna, avvocato Cassazionista specializzato in Diritto Penitenziario e della Esecuzione Penale, Presidente Nazionale dell’Associazione Forza dei Consumatori e Vice Presidente dell’Associazione #RecidivaZERO, nonchè relatore in tantissimi convegni sui più disparati temi relativi la tutela dei diritti dei soggetti deboli.
Con l’avvocato penalista Marco Valerio Verni, esperto in diritto internazionale e con Elena Ricci, specializzata nel trattare di queste tematiche, essendo infatti giornalista di cronaca nera e giudiziaria, nonché fondatrice di Forze Armate News, che è il portale tematico con milioni di pagine viste, sul quale dà spazio e voce a chi opera su strada. Professionista che cura altresì la comunicazione per due importanti sindacati: il Movimento Sindacale Autonomo di Polizia (Mosap), primo nella Capitale e il Nuovo Sindacato Carabinieri (NSC).
Iniziamo con l’avvocato Leopoldo Di Nanna:
1)Avvocato, parlando del caso di Richard Moore ha usato parole dure, forti, di severa condanna. Secondo lei, perché ancora oggi, 2022, dopo tutte le carte sui diritti dell’uomo, le dure battaglie per abolire la pena di morte, esistono Stati che continuano a metterla in atto? Secondo lei, questo è un problema solo giuridico o anche culturale?
-Si, è decisamente un problema culturale. Mancano proprio le basi della essenza della civiltà, nella gran parte della gente, per poter comprendere che uccidere è sbagliato chiunque sia a farlo, che non esiste nessuna motivazione valida per eliminare una vita e che non ha alcun valore nemmeno deterrente poichè è statisticamente dimostrato che il tasso di criminalità e di recidiva non viene nemmeno scalfito dal timore che dovrebbe produrre la pena di morte nel reo.
2)Cosa pensa invece, delle pene previste dal nostro ordinamento giuridico? Sono espressione di quanto è riportato nell’art 27 cost, ossia funzione rieducativa della pena o ledono questo stesso principio?
Il nostro Ordinamento Giuridico allo stato attuale non è in linea con quanto prevede il mirabile Articolo 27 della Carta Costituzionale, poiché vi sono norme (solo a titolo di esempio cito l’Art. 4bis dell’Ordinamento Penitenziario) che sostanzialmente elidono la funzione rieducativa della pena disponendo limiti all’unica possibilità di rieducazione dei condannati, che passa per i benefici premiali e per le misure alternative alla detenzione. Per non dire di regimi carcerari privi di qualsivoglia senso di umanità, quali il noto 41bis, completamente slegato da qualsivoglia principio di civiltà, prima ancora che costituzionale.
3)Quali sono le falle giuridiche sia a livello di diritto sostanziale che procedurale nel nostro sistema penale?
Le falle sostanziali e procedurali più evidenti sono quelle che di fatto impediscono una vera parità tra accusa e difesa nel processo penale, in linea con quanto dispone l’Art. 111 della nostra Costituzione, altra norma continuamente violata sia dal Legislatore sia nel concreto dalla Magistratura. Innumerevoli le situazioni e condizioni che vedono l’imputato e il suo difensore in una posizione letteralmente “arginata” in udienza. Ospiti quasi indesiderati. La parola dell’imputato non ha nessun valore dinanzi al Giudice e le attività difensive trovano ostacoli di ogni genere a partire dagli stessi costi. Farò solo un esempio: una copia di un CD contenente file di qualsiasi formato presente nel fascicolo del Pubblico Ministero costa ben 330,00 euro. Una cifra assurda. Ci sono processi importanti in Corte di Assise nei quali occorrerebbe masterizzare 50 o 100 CD ed è praticamente impossibile farlo se non per i clienti facoltosi e tutto ciò in un sistema genericamente dedicato, sia in ambito Civile che Penale, ai ricchi.
4)Cosa spera ma soprattutto cosa si aspetta per il futuro, sia sotto l’aspetto normativo che di sensibilità da parte dei consociati per quanto concerne il nostro sistema penale?
La immediata eliminazione dallo scenario normativo delle norme sopra citate e di tutte le altre introdotte da chi non ha mai messo un solo piede in Tribunale o in carcere. La maggior considerazione – anche in termini di fondi da dedicare per migliorare le strutture e gli strumenti e le risorse – del comparto Giustizia che rappresenta una delle tre più importanti colonne di uno Stato, unitamente a Sanità e Istruzione. L’implementazione delle misure alternative alla detenzione quale unica strada per ridurre la recidiva e per “salvare”, letteralmente vite umane che hanno sbagliato ma devono avere la possibilità di riscoprire (e spesso scoprire per la prima volta) circuiti virtuosi quali lo studio, la cultura, il lavoro, lo sport, l’arte, la musica.
5)Perché secondo lei, tanti, troppi italiani vogliono la pena di morte? È una volontà che dipende solo da loro o a cui ha contribuito anche lo stesso Stato, visto che c’è sempre meno fiducia nella giustizia, soprattutto da parte delle vittime o relative famiglie?
-Lo abbiamo già detto: è un problema culturale. Si dà ascolto al primo impulso che è quello della vendetta e tutto ciò va a combinarsi con la buona dose di ipocrisia e di pregiudizio che invade l’animo umano, per produrre un risultato devastante di odio nei confronti del prossimo, finchè quel prossimo non siamo noi o i nostri figli o fratelli o coniuge o parenti. Non si giunge a comprendere che quando lo Stato interviene, così come quando interviene un Avvocato o un Giudice, il reato già è stato commesso e indietro non si può tornare. Si può invece dare l’esempio a chi lo ha commesso ed anche alle persone offese e non è certo quello di uccidere chi ha ucciso poiché non riporta certamente in vita la vittima. Anzi, così facendo si diventa e dimostra di essere esattamente come il suo carnefice: e tutto ciò nel 2022 è inammissibile. Abbiamo un gioiello splendido che ci detta la via e si chiama Costituzione, dobbiamo solo imparare ad indossarlo.
6)Lei ha sempre manifestato una particolare sensibilità verso i detenuti, denunciando spesso le condizioni in cui versano, denuncia che lascia amaramente di stucco, viste le norme a tutela della dignità del detenuto, come la legge 354/75. Il che, di conseguenza, fa supporre che la stessa non viene applicata o forse deve essere modificata perché inefficace a far fronte alla tutela del detenuto?
La Legge sull’Ordinamento Penitenziario per molti Istituti è letteralmente carta straccia e le motivazioni sono tante. La Magistratura di Sorveglianza non ha una specifica preparazione ed è ovunque carente di organico amministrativo e per ogni istanza anche semplicissima da istruire e per decidere, come ad esempio le liberazioni anticipate previste ogni sei mesi di buona condotta, passano mesi se non addirittura anni. E ne sappiamo qualcosa noi Avvocati costretti a inviare solleciti da mattina a sera e recarci continuamente nelle cancellerie di tutta Italia, anche per i più banali benefici premiali, prima ancora che per le misure alternative alla detenzione. Tornando all’Ordinamento Penitenziario, le continue condanne per trattamenti disumani da parte dei nostri Giudici testimoniano il pessimo stato delle carceri nelle quali, tra sovraffollamento, abuso della misura cautelare della custodia cautelare in carcere, carenza di personale e strutture adeguate, sanità indecente e quanto altro, la detenzione diviene letteralmente un inferno, che conosce solo chi vive.
7)Si parla di “violenza poliziesca”, al punto che, il 15 marzo è la giornata internazionale contro la stessa e nel nostro ordinamento giuridico è stato introdotto il reato di tortura ex art 613 bis Cp. Secondo lei, bastano questi interventi sociali e giuridici o si deve fare altro sia a livello normativa che culturale?
-Più che altro a livello culturale, poiché sotto il profilo normativo non ritengo vi siano ormai più lacune. La metamorfosi che necessita la nostra civiltà è però sempre più difficile in un’epoca viceversa contraddistinta dalla esaltazione della forma rispetto alla sostanza, e nella quale anche solo studiare, inizia ad apparire fuori moda, rispetto al passare ore/giornate incollati ad un social.
Dopo le risposte più che esaustive dall’avvocato Leopoldo Di Nanna, passiamo adesso all’avvocato Verni e alla giornalista Elena Ricci, per affrontare l’altra faccia della medaglia della violenza, che infatti non ha divisa ma solo vittime.
8)Si è parlato di violenza poliziesca ma ci sono altresì, tanti, troppi casi di violenza sulle forze dell’ordine e non solo all’interno delle carceri. A tal proposito, quali sono le falle giuridiche ma anche politiche e culturali, che permettono questa vergogna sociale e istituzionale?
E.R – Bisogna dire le cose come stanno senza nascondersi dietro un dito. Esistono, purtroppo, operatori delle forze dell’ordine che sbagliano e abusano della loro posizione, commettendo a loro volta reati. Da questi, quando l’errore è accertato, bisogna prendere le distanze. Il concetto di violenza poliziesca però, non è ascritto solo a questi casi di cronaca giudiziaria mediatica: si parla di violenza alle manifestazioni, negli stadi, molto spesso travisando la realtà dei fatti. Si parla sempre e solo di violenza poliziesca, ignorando che molto spesso sono proprio gli uomini in divisa a subire sia su strada che nelle carceri senza avere giustizia. Per citare un caso che ho curato personalmente, il poliziotto delle volanti di Roma Yuri Sannino, accoltellato al petto a Tor Bella Monaca da un pregiudicato. Ha perso un litro e mezzo di sangue, ha rischiato di morire per poi vedere il suo aggressore ricevere uno sconto di pena in appello a soli 4 anni e mezzo, senza un giorno di carcere. Ecco, di questo non si parla.
9)A tal proposito, quali sono le falle giuridiche ma anche politiche e culturali, che permettono questa vergogna sociale e istituzionale?
E.R – Sicuramente un impianto normativo lacunoso che non garantisce la certezza della pena. Se poi, vogliamo fare un commento sulle falle politiche e culturali, possiamo parlare di un sistema che molto spesso grazia i carnefici e sacrifica le vittime, a maggior ragione se queste indossano una divisa. In Italia manca la cultura della gratitudine e del rispetto nei confronti delle forze dell’ordine, spesso visti come mercenari. Quando racconto le loro gesta eroiche o importanti operazioni nelle quali rischiano la vita, mi sento rispondere: “niente di eclatante, hanno fatto il loro dovere”. Certo, hanno fatto il loro dovere, ma la vita è sacra e prima ancora che uomini di Stato, sono uomini, padri e madri di famiglia.
10) Perché si parla ancora troppo poco delle sevizie, degli abusi, delle violenze sulle forze dell’ordine commesse da detenuti e non solo?
E.R – Cosa fa più notizia? Il poliziotto aggredito dal detenuto o viceversa? Le aggressioni nelle carceri ai danni degli agenti della polizia penitenziaria sono all’ordine del giorno e, purtroppo, sono una routine che sta diventando pericolosamente “normale”, al punto da non darne notizia. Le carceri sono un sistema oramai allo sbando: l’organico è sempre più carente a fronte di un sovraffollamento sempre in crescendo. Agli agenti viene chiesto di tutto, anche sorvegliare detenuti che un tempo erano affidati agli ospedali psichiatrici giudiziari che ora non esistono più. Criminali pericolosi con disturbi psichici importanti, molto spesso sono autori di gravi aggressioni ai danni degli agenti che – lo vorrei ricordare – non sono personale sanitario, né devono sostituirsi a questo.
11) Perché si dà altresì così poca voce al boom di suicidi nell’arma?
E. R – Qui, potrei scrivere un libro. Discuterò la mia tesi magistrale tra una settimana sull’argomento, realizzata grazie a una intervista cui ho sottoposto ben 209 appartenenti alle forze dell’ordine. Quindi, quale fonte più affidabile? Di recente si è svolto un importante convegno sul tema, organizzato dal Comando Generale dell’Arma con illustri relatori. Dalle parole del Generale Luzi è emerso che la pandemia e le immagini belliche del conflitto russo-ucraino hanno in qualche modo destabilizzato gli animi.
Non metto in dubbio che la pandemia abbia influito psicologicamente su ognuno di noi, non solo sui carabinieri, ma i suicidi dell’Arma o nella Polizia di Stato, sono un fenomeno che esiste già da prima della pandemia. Nel 2019, prima dello scoppio della pandemia, solo nell’Arma dei Carabinieri ci sono stati 17 suicidi; nel 2020 sono stati 13, nel 2021 23, e 9 solo dall’inizio del 2022.
Il disagio sicuramente non è dettato dalla pandemia o dalla guerra in Ucraina. Nella mia indagine, ad esempio, in tanti hanno lamentato tra le cause di stress, pressioni interne, mancanza di comunicazione circolare con la scala gerarchica, poche tutele, rischi non commisurati alla retribuzione, situazioni lavorative, come ad esempio i trasferimenti, che spesso non collimano con le esigenze familiari. E su quest’ultimo punto posso fornire la mia personale esperienza: sono la moglie orgogliosa di un poliziotto, aspettiamo la nostra prima bimba e il papà che lavora in altra regione, non ha potuto mai accompagnarmi a una visita. Fino a che la dimensione lavorativa continuerà a prevalere su quella umana, non c’è via d’uscita nemmeno con tutti i convegni del mondo. È ora che si guardi più all’uomo che al numero. Le due dimensioni devono coesistere. Il suicidio è imprevedibile, non si può arginare, ma il burnout può essere prevenuto.
12) Cosa invece, dovrebbe cambiare all’interno dell’Arma? Quali sono gli aspetti positivi e quindi da continuare a salvaguardare e quali invece da modificare se non sradicare?
E.R – Dal punto di vista politico e culturale invece c’è tanto da fare negli ambienti militari e di polizia. Innanzitutto, comprendere che il disagio non è un’etichetta ma una fase della vita di ognuno che può e deve essere superata, magari con l’istituzione di sportelli affidati a figure professionali esterne come psicologi e pedagogisti non militari con i quali il personale deve obbligatoriamente avviare un dialogo, al di là del fatto che abbiano o meno problemi. Parlare deve essere considerato normale e non sintomo di “pazzia” tale da ritirare manette e tesserino.
Poi, come dicevo prima, bisogna iniziare a guardare l’uomo e la donna oltre la divisa.
13)Cosa consiglia a chi intende intraprendere questo percorso così affascinante a tratti romantico ma altresì ricco di insidie?
E.R – Di essere convinto. Indossare una divisa è più che un semplice lavoro, è una missione che richiede impegno e sacrificio. A chi intende intraprendere questo percorso mi sento di consigliare questo e mi sento in dovere di dire la verità: non è facile. Le tutele sono poche, mezzi ed equipaggiamenti anche. È più facile finire alla sbarra che vedere il proprio aggressore o un soggetto fermato dietro le sbarre. Comprendo la pesantezza della mia affermazione, ma invito chiunque a smentirmi con i fatti.
14) Avvocato Verni, riguardo la demoralizzazione nelle forze dell’ordine, si dice che, un’altra delle cause, forse, sia il fatto che non vi sia la certezza della pena, con quest’ultima che, spesso, viene sospesa, salvo poi assistere a persone che, già condannate, e che hanno beneficiato di tale istituto, sono tornate poi a delinquere. Cosa pensa al riguardo?
A.V – Quello cui Lei fa riferimento è un tema importante. Mi lasci, intanto, sfatare un mito: la sospensione condizionale della pena, ove possibile, non è affatto obbligatoria, sebbene oggi sembri essere, in molti casi, diventata automatica. L’art. 163 del codice penale, in cui essa è prevista, recita infatti che il giudice “può” sospendere l’esecuzione della pena, e ciò in base ad una valutazione discrezionale fondata su una serie di criteri rigorosamente indicati, tra cui la personalità dell’imputato, le modalità dell’azione criminosa posta in essere, i suoi precedenti giudiziari e le sue condizioni di condotta e di vita.
Se, in linea generale, risulta in diversi casi una scelta ben fatta, dal momento che i “beneficiari”, capito l’errore e la seconda possibilità che gli vien concessa, non commettono più altri reati, è vero pure il contrario, purtroppo. E, in tal ultimo senso, non sono mancati i casi eclatanti.
15) Avvocato, ritiene la magistratura in qualche modo responsabile, quando accadono questi errori?
A.V – Guardi, come dicevo prima, la sospensione condizionale della pena – che, di per sé, è istituto di tutto rispetto e, da avvocato, sono ben contento che esista – è rimessa alla valutazione discrezionale del magistrato.
Ora, se da una parte, può essere vero che i giudici si trovino, per vari motivi, ad affrontare enormi carichi di lavoro ed i relativi provvedimenti possano inevitabilmente risentire di questo, così come il fatto che, compiere una determinata scelta non sia mai facile, per altro verso, se si decide di concedere questo beneficio ad una persona che si è macchiata comunque di un crimine, perché si pensa che non lo rifarà, e poi questa, invece, smentisce la previsione del magistrato, credo che, soprattutto nei casi più eclatanti di cui dicevo più sopra, dovrebbero intervenire gli appositi organi per valutare l’eventuale “leggerezza” del giudicante nell’aver preso quella decisione. Ci si assume delle responsabilità, nel bene e nel male. E, se si sbaglia, almeno nelle situazioni più gravi, se ne dovrebbe rispondere. Poi certo, il discorso non è chiaramente solo questo né la causa della “non certezza della pena” solo l’istituto in commento.
16)Avvocato, come giudica, in tal senso, la riforma della magistratura che è in discussione in questi giorni?
A.V – Ritengo che, al dunque, essa non risolverà del tutto i problemi del mondo giudiziario e, quindi, dei cittadini, ma è, intanto, un passo in avanti. Capisco gli equilibri politici (con tutti i loro limiti che, a volerla dir tutta, hanno anche stancato), ma sarebbe occorsa più determinazione nell’affrontare alcune tematiche. Responsabilizzare maggiormente i magistrati non vuol dire limitarne l’operato, come sostengono alcuni, ma, anzi, migliorarlo, rendendolo ancora “più consapevole”. E’ innegabile che certi provvedimenti, in diversi casi, scaturiscano da un lavoro impostato e gestito male, e non basta dire che il nostro sistema abbia i rimedi per poter sopperire a ciò, tra cui i famosi tre gradi di giudizio: perché, nel frattempo, chi subisce una ingiusta detenzione cautelare, ad esempio, non recupererà più l’onta di averla subita, con tutto quello che ne consegue sotto i vari profili. Il discorso è certamente lungo e complesso, ma ritengo che, attraverso un meccanismo di maggior responsabilizzazione, appunto, che passa anche, certamente, attraverso il famoso “fascicolo del magistrato”, valorizzato nella predetta riforma, si possa premiare il merito di coloro che, pure, svolgono da sempre – e per fortuna – con abnegazione, precisione, ed attaccamento ai valori (per i quali hanno scelto la bella ed importante missione dell’essere magistrati) il loro lavoro, e non altre logiche di cui, purtroppo, abbiamo visto i risultati.
Intervista che tratta di vittime così lontane e contestualmente così vicina, proprio perché come disse il grande Beccaria: “Ogni delitto, benché privato, offende la società.”

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