Gianluca Catullo (Wwf): “L’ambiente è diventato più favorevole a queste specie. Per esempio, la questione dei cassonetti nelle aree periferiche o suburbane dove l’immondizia magari non viene raccolta per un certo tempo significa in qualche modo ‘drogare’ un po’ l’ambiente”.
AGI – Nel 2019, secondo Ispra, l’Istituto superiore per la ricerca ambientale, nel Paese circolavano 1 milione di cinghiali, tre anni più tardi, nel 2022, ad avviso di Coldiretti sono 2,3 milioni, in pratica un cinghiale ogni 4 abitanti. Un incremento enorme. In verità, secondo Gianluca Catullo, responsabile specie e habitat dell’associazione ambientalista Wwf, biologo, laureatosi sulle metodologie per stimare la densità delle popolazioni degli ungulati, cinghiali, cervi, caprioli, mufloni, etc, “noi ad oggi non abbiamo assolutamente dei numeri minimamente attendibili” perché “ciascuno fa delle proprie stime che lasciano il tempo che trovano”.
Possibile, nessuno monitori?
“Nel nostro paese non c’è alcuna abitudine a monitorare le specie animali, in particolare quelle più grandi come il lupo in via di estinzione fino a qualche anno fa. Finalmente Ispra ha da qualche tempo avviato un monitoraggio su scala nazionale e tra qualche settimana saremo in grado di avere dei numeri veri sulla popolazione italiana di lupo. Aspettiamo con ansia i dati. Nel caso del cinghiale, però, siamo molto molto più indietro, ci sono delle stime che fanno solo i cacciatori”.
Però non si può negare che si tratti di una popolazione abbastanza numerosa, comunque cresciuta, presente, che ormai arriva a lambire le nostre città, che sconfina dalle riserve e dalle zone verdi…, decisamente invasiva.
“Se lei mi dice aumentata o diminuita le posso dire solo che abbiamo dei segni chiari di aumento di questa specie animale, il che può dipendere da varie condizioni: innanzitutto dal fatto che abbiamo un territorio naturale che, a partire dagli anni ’50 in poi, è andato espandendosi parallelamente a quel che è stato il ritiro della popolazione dalle aree agricole. Ci siamo spostati nelle aree urbanizzate e questo ha fatto sì che tutte quelle lande che erano coltivate sono state recuperate dal bosco, per cui ora disponiamo di una copertura forestale che è di tutto rispetto. E questo ha consentito a tante specie di ricolonizzarsi. E il lupo è l’esempio classico che si fa in quest’ambito”.
Invece per i cinghiali?
“Tutti gli ungolati, e i cinghiali in particolare, sono stati oggetto di un intervento di reintroduzione, per cui nel caso di cervi e caprioli si è operato con approcci e modalità tecnico-sceintifiche, mentre nel caso del cinghiale – poiché non era una specie di interesse conservazionista, detto tra virgolette – il mondo del cinghiale è stato ed è di fatto gestito dalle associazioni venatorie”.
E questo che significato particolare ha?
“Significa che tutti i rilasci che sono stati fatti fino ad alcuni anni fa sono stati fatti dai cacciatori. E qui, per altro, c’è tutta una polemica sul tipo di cinghiale che è stato rimesso in circolazione, che è stato quello dell’Europa dell’Est, una delle specie tra le più prolifiche, ciò che ha fatto sì che la popolazione crescesse in una maniera più rapida e consistente”.
Ma poi cosa è successo?
“È successo che in assenza di un vero e proprio monitoraggio scientifico, lasciando un po’ il controllo, il timone della gestione del cinghiale al mondo venatorio questa cosa non ha affatto aiutato, perché la metodologia adottata non è funzionale a ridurre l’entità della specie in circolazione. Anzi. In taluni casi, quando si fanno gli abbattimenti selettivi – magari privilegiando individui adulti o quando si fanno le braccate – può succedere che il prelievo che viene fatto dalle associazioni o dai cacciatori invece di andare a ridurre il problema rischia di amplificarlo. Di fatto si va a destabilizzare e destrutturare questi gruppi sociali che come risposta possono mettere in atto un’accelerazione in quello che è il loro sistema riproduttivo, moltiplicando la specie”.
Quindi sparargli addosso non è il caso?
“Chi studia il cinghiale sa che la modalità migliore per prelevare questi animali è attraverso la cattura, che avviene in maniera estremamente semplice, perché si utilizzano appunto dei piccoli recinti e gli animali vengono abituati a entrarvi, utilizzando esche alimentari come può essere del mais. Così, dopo un periodo di adattamento si può operare la loro cattura. Viene perciò catturato l’intero gruppo familiare e si può poi effettuare il prelievo portando gli animali al macello o quant’altro. Allora, se noi volessimo intervenire per controllare la popolazione dei cinghiali dovremmo mettere in atto queste metodologie. Ma in Italia tutto ciò è abbastanza fantascientifico, a parte poche aree protette. Ma si tratta di vere eccezioni”.
Ma come si fa a contenere questi animali? Come ci si difende quando arrivano fin dentro le città, a lambire i cassonetti? Diventano pericolosi, attraversano le strade, sono causa di frequenti incidenti automobilistici.
“Certo, l’ambiente è diventato più favorevole a queste specie. Per esempio, la questione dei cassonetti nelle aree periferiche o suburbane dove l’immondizia magari non viene raccolta per un certo tempo significa in qualche modo ‘drogare’ un po’ l’ambiente. Quindi la cosa che direi è che paradossalmente bisognerebbe ‘peggiorare’ le condizioni dell’ambiente per scoraggiare il cinghiale, tenendolo il più possibile pulito. La cosa che a Roma i cassonetti non vengono svuotati è abbastanza paradossale se non surreale… E per quanto riguarda gli incidenti stradali anche in questo caso si possono abbassare o mettere dei limiti di velocità nelle zone più a rischio di attraversamento, oppure attuare dei dissuasori sonori con appositi radar con tutta una gamma di misure preventive che sono già disponibili e testate. Ma una cosa è certa: dobbiamo arrivare necessariamente a un compromesso”.