«Tu stai attento. Perché seppoi mi incazzo ti potresti fare male. Vi abbiamo fatto chiudere la sezione di via Migiurtinia, vi faremo chiudere anche quella di via Somalia.»
Queste le parole emerse dalla testimonianza dei ragazzi del Fronte della Gioventù.
Sante Moretti, segretario della sezione del PCI, intervistato diversi anni dopo, ammise di aver minacciato i ragazzi del FDG di fargli chiudere tutte le sezioni, ma negò le minacce dirette a Cecchin.
Ripercorriamo insieme quel maledetto 28 maggio 1979:
mentre stava affiggendo manifesti del Fronte della Gioventù con altri quattro amici, Cecchin era stato coinvolto in un’accesa discussione con un gruppo di attivisti della sezione del PCI di via Montebuono.
Quella sera stessa, Cecchin uscì a cena fuori con la sorella e un amico.
Mentre si trovavano in piazza Vescovio nel quartiere Trieste, fu riconosciuto da un gruppo di persone arrivate a bordo di una Fiat 850, due dei passeggeri scesero dalla vettura e cominciarono ad inseguirlo.
Rincorso tra le strade della zona si diresse verso un condominio di Via Montebuono che conosceva bene poiché residenza di un amico. Non vi furono testimoni e Cecchin fu ritrovato in fondo a un parapetto alto tre metri privo di conoscenza.
Dopo diciannove giorni di coma Cecchin morì il 16 giugno.
Immaginate cosa abbia provato un ragazzo, un essere umano, inseguito da bestie, da indegni, da chi nulla c’entra con la politica e niente ha a che fare col senso di civiltà.
Provate anche solo lontanamente a immaginare la paura, il terrore di chi ha “osato” non essere come loro, di chi ha “osato” appartenere a ben altro colore politico, di chi ha “osato” avere una sua visione politica.
Cercate di sentire la sofferenza e il dolore provati da una vita spezzata prima ancora di essere vissuta.
Un giovane di 17 anni picchiato selvaggiamente con tanto di milza spappolata e poi gettato da un terrazzo alto circa 3 metri, come se fosse un niente, come se non si trattasse di una vita degna di rispetto e soprattutto col sacrosanto diritto di essere vissuta.
Perché così tanta barbarie in un’Italia in cui, gli stessi Padri Costituenti si riunirono per renderla migliore e quindi civile, umana, partendo proprio dalle macerie degli orrori della guerra?
Una guerra che seminò morti su morti, vittime innocenti della follia umana che degenera in becero fanatismo, dimenticando così le basi e quindi l’essenza delle regole di civiltà.
Un fanatismo che porta a macchiarsi di crimini efferati, le cui vittime non hanno né colore di pelle né politico ma sono solo titolari del diritto alla vita.
Un diritto inviolabile che nessuno ha diritto di stroncare né tanto meno di dimenticare una volta leso.
Di questo orrore, che ha come protagonista un nostro giovane connazionale, parleremo nella rubrica “Vittime Scomode” con Nicolò Dal Grande, segretario nazionale dell’associazione culturale Identità Europea e collaboratore della rivista Domus Europa.
Dott. Dal Grande, negli anni di piombo ci ritroviamo in una guerra tra italiani solo perché di diversa appartenenza politica.
Situazione allucinante che conferma amaramente quanto detto da chi la guerra l’ha vissuta , pagando le sue idee con la vita:
“la storia insegna ma non ha scolari”.
Perché, a suo avviso, dopo una guerra in cui l’Italia ha vissuto tra morte, sangue e orrori, la Stessa si ritrova a versare tra stragi, terrorismo e giovani vite spezzate in quelli che sono definiti “gli anni di Piombo”?
-“Per comprendere quel decennio particolare della nostra storia è necessario immergersi sul contesto geopolitico globale sviluppatosi dalla fine del conflitto mondiale. Nei primi vent’anni del dopo guerra si era assistito alla divisione dell’Europa e del mondo in due blocchi, alla spinta reciproca delle potenze statunitense e sovietica nello spartirsi le zone di influenza; si pensi ai fatti di Praga (1948) e Budapest (1956) o al conflitto civile greco o a quello coreano: laddove si giunse al limite della possibile espansione di entrambi, li si divise il mondo. L’Italia, entrata nel blocco atlantico, ricopriva – e ricopre – un ruolo strategico: è la chiave del Mediterraneo. Ma era anche sul confine della “Cortina di Ferro”, veniva da una cruenta guerra civile, esprimeva il più forte partito comunista dell’Europa mediterranea e occidentale. Era un nervo scoperto, diviso nell’intimo della società, non solo fra democristiani, comunisti o nostalgici del ventennio, ma anche fra le città e le campagne: era una realtà tutt’altro che unita
Vennero poi il Sessantotto, le rivolte studentesche e la crisi dei due blocchi. Forze interne spingevano per cambiare la società. E quel nervo scoperto vibrò. E vibrò intensamente.
Vi fu uno scontro tra forze “progressiste” – che riguardavano anche sfere appartenenti alla sfera culturale di destra – che spingevano per un cambiamento radicale e forze “reazionarie” che miravano al mantenimento dello status quo e dei rapporti di potere. La situazione deflagrò. Entrambi le controparti si fronteggiarono ed esplosero gli anni di piombo. Le contestazioni si alternarono agli scontri di piazza; gli asti mai sopiti della guerra civile esplosero nuovamente e il sangue scorse. In questo contesto sorsero le varie espressioni di terrorismo, incluso quello “di Stato” che sviluppò la cosiddetta “strategia della tensione”. Questa favorì lo scontro fra le parti di segno opposto, rafforzando l’ala conservatrice della politica italiana, che non esitò a sfruttare le morti di piazza a proprio vantaggio. Gli “anni di piombo” furono in parte il frutto dello scontro sociale derivato dal sessantotto, in parte la deflagrazione di una tensione socio-politica che, per quanto raffreddatasi nel ventennio precedente, non si era mai spenta”.
Rita Lazzaro.