Il 29 giugno, in occasione del compleanno di Orianna Fallaci nonché della sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti con cui è stata revocata la sentenza del 1973 sul caso roe v. Wade, si è parlato della giornalista con particolare riguardo alla sua posizione sull’ aborto.
Un tema socio culturale, politico, giuridico, molto acceso in quegli anni ma sempre attuale, e che lei avrebbe perfettamente potuto non toccare, visto che sarebbe stata più che felice di affrontare la maternità.
Gioia che, purtroppo, non ebbe la fortuna di poter vivere, ma fu comunque madre
Madre dei suoi libri coi quali, infatti, c’era un “rapporto materno”, come lei stessa sosteneva.
Quella stessa maternità che la portò a ritardare le cure per il cancro ai polmoni.
Infatti la Fallaci spiegò che, quando le fu diagnosticata la malattia, era impegnata nella traduzione inglese di Insciallah, già ritradotto in francese a causa di una “traduzione pessima”.
La giornalista si ritrovò “dinanzi a un dilemma angoscioso”: abbandonare il lavoro e correre subito dal medico,oppure finire il lavoro e poi fare l’operazione?
“Ci pensai una lunga, tormentosa notte, e poi scelsi la seconda soluzione […] Se tornassi indietro farei la stessa cosa. […] quando dico che tra me e i miei libri c’ è un rapporto materno che i miei libri sono i miei figli. Li concepisco, li partorisco, li amo li difendo e tra la propria salute e quella di suo figlio, tra la propria vita e quella di suo figlio, quale madre, non sceglie la salute di suo figlio e la vita di suo figlio? Io la penso così”.
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Una passione, un amore per la scrittura, che la accompagnò dalla tenera età alla morte.
“Quando ero bambina, a cinque o sei anni, non concepivo nemmeno per me un mestiere che non fosse il mestiere di scrittore”.
Non per nulla, sull’epitaffio della lapide al Cimitero degli Allori di Firenze, per sua espressa volontà, fu incisa una frase che è la perfetta sintesi della sua vita: “Oriana Fallaci, scrittore“.
Una penna che ha sicuramente lasciato il segno nella storia del giornalismo italiano e non solo; riportando le sue riflessioni più intime, il suo modus operandi ben lontano da un giornalismo oggettivo ossia dove il giornalista è mero portavoce della vicenda, privo di opinioni e considerazioni.
Un giornalismo che oggi si definirebbe politicamente scorretto, con domande mirate e tremendamente scomode, accompagnate da condotte altrettanto “scorrette”.
Continueremo a parlare dello scrittore nella rubrica “La penna scorretta” con Claudia Svampa, giornalista professionista che, da oltre vent’anni, si occupa di temi internazionali, terrorismo, immigrazione e difesa, nonché grande amante della Fallaci.
Dott.ssa Svampa, ad oggi, vista la situazione in cui versa il giornalismo italiano, come la sua allucinante posizione riportata dal nuovo World Press Freedom Index – una classifica annuale che valuta lo stato del giornalismo e il suo grado di libertà in 180 paesi del mondo – che riporta l ‘Italia alla 58esima posizione, come pensa avrebbe reagito la Fallaci a tutto questo? Avremmo visto anche lei in qualche lista di proscrizione? E in quale di preciso, visti i continui marchi fuoriusciti prima con la pandemia e oggi col conflitto Russo-Ucraina?
“Il fallimento dell’informazione è ben fotografato da questa attuale 58esima posizione: il giornalismo italiano è ormai un malato terminale al quale – per dirla con un linguaggio pandemico da Comitato Tecnico Scientifico (CTS) – sono stati a lungo somministrati come unica terapia Tachipirina e vigile attesa.
Oriana Fallaci ha sempre combattuto battaglie ideologiche con le armi affilatissime dell’onestà intellettuale, della determinazione inossidabile e della cultura.
Tanta cultura, a partire da quella stilistico-grammaticale, oggi tragicamente desueta.
Molto improbabile dunque pensare che avrebbe aderito alla narrativa dell’orso cattivo Putin che si é famelicamente avventato sull’agnellino buono Zelensky.
Assai improbabile ipotizzare che non avrebbe contestualizzato storicamente e geopoliticamente questo conflitto in corso, e restituito parte delle responsabilità al manovratore non certo occulto, gli Stati Uniti d’America.
Altrettanto improbabile credere che avrebbe accomunato le vere vittime di tutti i conflitti, ovvero la popolazione civile ucraina, con il suo governo.
E tra le vittime civili non credo avrebbe trascurato la popolazione del Donbass che negli ultimi otto anni ha pagato con un pesantissimo tributo di sangue il prezzo della propria cultura identitaria filorussa.
Difficile, in sintesi, non immaginare, come rintocchi di campane a morto, le parole della Fallaci, contro la guerra e tutti i suoi padrini.
Sbattendoci in faccia non solo la barbarie delle bombe russe sugli ospedali pediatrici, ma anche, epitaffio dopo epitaffio, quella sequenza struggente di piccoli loculi che compongono il “viale degli angeli” di Doneck, nel Donbass.
Lo stesso discorso vale per la propaganda politica in campo sanitario durante la pandemia: l’orrore di come é stata affrontata l’emergenza, le restrizioni delle libertà personali utilizzate per sopperire all’inadempienza gestionale, la comunicazione schizofrenica improntata a terrorizzare e non a rassicurare il paese, certamente l’avrebbero fatta infuriare.
E la furia della Fallaci difficilmente avrebbe permesso alla propaganda politica di strumentalizzarla quale filorussa o novax con le semplificazioni concettuali dell’ignoranza argomentativa: Oriana Fallaci aveva dalla sua la dialettica, la logica, il rigore e le basi culturali con le quali avrebbe vinto a mani basse ogni confronto con quelli che sono oggi i reucci dei social che stampano quotidianamente etichette da affibbiare”.
“La furia della Fallaci” frase che sintetizza il fuoco acceso nella penna di chi, prima di usarla, si muniva delle “armi affilatissime dell’onestà intellettuale, della determinazione inossidabile e della cultura”.
Caratteristiche queste, che sembrano sempre più avulse dal mondo del giornalismo, e i fatti, precisamente le posizioni, ne sono amara e inconfutabile prova.
Rita Lazzaro