La vicenda nasce dai fermi delle imbarcazioni di Sea-Watch, che si era rivolta al Tar. Quest’ultimo ha poi girato il tema alla Corte di Lussemburgo. La Commissione europea all’Italia: “Applicate la sentenza”
di Fabio Greco
AGI – Arriva dalla Corte di giustizia europea una sentenza storica per il soccorso in mare dei migranti, e una bocciatura per il governo italiano: le navi di organizzazioni umanitarie che conducono un’attività sistematica di ricerca e soccorso possono essere sottoposte a controlli da parte dello Stato di approdo, ma quest’ultimo può adottare provvedimenti di fermo soltanto in caso di evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l’ambiente, tutte circostanze che vanno provate dallo Stato che adotta il provvedimento. La Corte di Lussemburgo si è pronunciata sul caso delle due navi Sea Watch 3 e Sea Watch 4, oggetto di fermo ai porti di Palermo e di Porto Empedocle nell’estate del 2020. Per prendere tale provvedimento, le autorità italiane avrebbero dovuto dimostrare “in maniera concreta e circostanziata, l’esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l’ambiente”. In ogni caso, “spetta al giudice del rinvio verificare il rispetto di tali prescrizioni”, ha aggiunto la Corte.
Le due navi furono oggetto di ispezioni da parte delle capitanerie di porto, con la motivazione che non erano certificate per l’attività di ricerca e soccorso in mare e avevano imbarcato un numero di persone ampiamente superiore a quello autorizzato. Inoltre le autorità portuali affermarono l’esistenza di carenze tecniche e operative che comportavano un evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l’ambiente che richiedevano il fermo delle navi. La Sea Watch fece ricorso al Tar Sicilia per l’annullamento dei provvedimenti, sostenendo che le capitanerie avrebbero violato i poteri di cui dispongono le autorità dello Stato di approdo. Il Tar, a sua volta, si rivolse alla Corte, che, riunita in Grande Sezione, ha ribadito l’importanza, anche nell’applicazione della direttiva 2009/16 sui controlli nei porti, gli Stati membri “sono tenuti a rispettare…la convenzione sul diritto del mare e la convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare”.
“La prima sancisce, in particolare, l’obbligo fondamentale di prestare soccorso alle persone in pericolo o in difficoltà in mare. La seconda dispone – spiega la Corte – che le persone che si trovano, a seguito di un’operazione di soccorso in mare, a bordo di una nave, compresa una nave gestita da un’organizzazione umanitaria quale la Sea Watch, non devono essere computate in sede di verifica del rispetto delle norme di sicurezza in mare. Il numero di persone a bordo, anche ampiamente superiore a quello autorizzato, non può dunque costituire, di per sè solo, una ragione che giustifichi un controllo“.
Una volta che una nave umanitaria abbia completato lo sbarco o il trasbordo di tali persone in un porto, lo Stato di approdo “può sottoporla a un’ispezione diretta a controllare il rispetto delle norme di sicurezza in mare. A tal fine, occorre però che tale Stato dimostri, in maniera concreta e circostanziata, l’esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l’ambiente”.
Quanto all’estensione dei poteri dello Stato di approdo, la Corte rileva che “quest’ultimo ha diritto, per dimostrare l’esistenza di indizi seri di un pericolo, di tenere conto del fatto che navi classificate e certificate come navi da carico da parte dello Stato di bandiera sono, in pratica, utilizzate per un’attività sistematica di ricerca e soccorso di persone. Per contro, lo Stato di approdo non può imporre che venga provato che tali navi dispongono di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera o che esse rispettano tutte le prescrizioni applicabili a una diversa classificazione. Peraltro, nel caso in cui l’ispezione riveli l’esistenza di carenze, lo Stato di approdo può adottare le azioni correttive che ritenga necessarie. Tuttavia, queste ultime devono, in ogni caso, essere adeguate, necessarie e proporzionate. Lo Stato di approdo non può poi subordinare la revoca del fermo di una nave alla condizione che tale nave disponga di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera“.
La Commissione europea ha “preso atto della decisione della Corte di giustizia dell’Ue”, e sottolineato che i procedimenti dovranno ora continuare al tribunale italiano che si è rivolto ai giudici Ue e “spetterà all’Italia garantire l’applicazione della decisione”. La sentenza potrebbe aprire la strada per una procedura d’infrazione a carico dell’Italia se il governo non darà attuazione, come auspicato dalla Commissione Ue, alla decisione dei giudici di Lussemburgo, spiega Fulvio Vassallo Paleologo, giurista, esperto dei diritti umani all’Universita’ di Palermo, in un articolo su a-dif.org, il sito dell’Associazione diritti e frontiere. “E andranno risarciti – sottolinea – tutti i danni per l’ingiustificato fermo amministrativo, protratto anche per mesi, ai danni delle navi delle Ong”.
“In tutti i casi di presunta immobilizzazione o di indebito ritardo – prosegue Vassallo Paleologo – il proprietario o l’armatore della nave potrà provare i danni subiti a causa del fermo amministrativo della nave. Il fermo amministrativo di una nave di una Ong, che avrebbe potuto operare attività di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, può dunque configurare un danno grave ed irreparabile, tanto per le Ong coinvolte, costrette a tenere ferme in porto navi dai costi giornalieri comunque assai elevati, tenendo conto della natura non commerciale della loro attività, basata sulla raccolta fondi tra i donatori e sul volontariato, e soprattutto per le persone che tentano la traversata e che, ancora in questi mesi, si possono trovare privati di una sia pur minima possibilità di soccorso in alto mare, dopo che gli Stati competenti e l’Agenzia europea Frontex hanno ritirato i loro assetti navali presenti in passato nelle acque internazionali tra il Nord-Africa, Malta e la Sicilia”.
“La sentenza fornisce una base legale alle Ong e rappresenta una vittoria per il soccorso in mare. Le navi potranno continuare a fare ciò che sanno e che devono fare: soccorrere le persone e non rimanere bloccate in porto per decisioni arbitrarie e pretestuose”, afferma Sea-Watch. “Per mesi – ricorda la ong – Sea Watch3 e Sea Watch4 sono state trattenute per controlli dello Stato di approdo con motivazioni assurde: certificazioni mancanti e troppe persone soccorse. Nella sentenza di oggi, la Corte di Giustizia Ue ha dichiarato che il salvataggio in mare è un dovere e i controlli dello Stato di approdo non devono essere usati in modo arbitrario contro le ong per trattenere le navi e impedire loro di svolgere il proprio lavoro”. L’Italia “non puo’ pretendere una certificazione che non esiste e che il numero di persone salvate non è un motivo di fermo. I controlli dello Stato di approdo devono essere effettuati quando previsto o con valida motivazione”. “Il fatto che i controlli dello Stato di approdo vengano effettuati sulle navi delle ong – aggiunge Sea Watch – è per noi un fatto positivo. Il loro scopo è quello di garantire la sicurezza delle navi, che consideriamo molto importante. I controlli arbitrari, invece, devono finire”.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, spiega ancora Vassallo Paleologo, ha “demolito due dei capisaldi delle motivazioni con cui le Capitanerie di Porto su evidente indirizzo ministeriale, e con l’ausilio di una specifica squadretta di ispettori, avevano ordinato il fermo amministrativo per diversi mesi, a partire proprio da quell’anno, delle navi Sea Watch 3 e Sea Watch 4. Nel caso della Sea Watch 4 la nave era rimasta bloccata nel porto di Palermo addirittura per sei mesi, e poteva ripartire soltanto nel mese di marzo del 2021”. “Per i giudici europei, e secondo la logica del diritto, non disgiunta da un minimo di umanità – continua – non possono essere considerati ‘passeggeri’ i naufraghi che vengono soccorsi in mare, e le navi delle Ong non possono essere costrette a dotarsi di ulteriori certificazioni dello Stato, che è obbligato a garantire il porto di sbarco (Pos), certificazioni che in passato le autorità italiane hanno invece richiesto a loro discrezione. Nel caso dell’Italia queste certificazioni non sono peraltro previste neppure dai registri del naviglio civile ed erano frutto di richieste arbitrarie da parte delle autorita’ amministrative”.
“Dopo i provvedimenti illegittimi di chiusura dei porti adottati da Salvini – prosegue Vassallo Paleologo – quando occupava il Viminale (che adesso si vuole “riprendere”), la gestione del ministro dell’interno Lamorgese, ancora in carica per pochi mesi, si era caratterizzata proprio per l’adozione sistematica di provvedimenti di fermo amministrativo delle navi civili che operavano soccorsi nel Mediterraneo centrale. Con l’evidente scopo di dissuadere e di criminalizzare i soccorsi umanitari in acque internazionali, in modo da lasciare spazio libero per gli interventi di sequestro in alto mare, spacciati per soccorsi, operati dalle unità della sedicente Guardia costiera libica, sostenuta dalle autorità italiane con finanziamenti e missioni militari in Libia”.
“A partire dal 2020 la misura del fermo amministrativo è diventata lo strumento ordinario di contrasto delle attività di ricerca e soccorso che le navi delle Ong tentano ancora di operare nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Tra il 9 ottobre e il 31 dicembre 2020 ben sei navi delle Ong risultavano bloccate in porto per effetto di provvedimenti di fermo amministrativo (Sea Watch 3, Sea Watch 4, Eleonore, Alan Kurdi, Ocean Viking e Louise Michel). Le informazioni su questi casi sono state sempre molto frammentarie. Ancora nel corso del 2021 le misure di fermo amministrativo avevano colpito in modo sistematico le navi delle Ong dopo l’ingresso in porto e lo sbarco dei naufraghi”.