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A che ora chiude Venezia?

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Anna Lombroso per il Simplicissimus

Qualche giorno fa un residente veneziano ha sentito con le sue orecchie un turista chiedere a un bigliettaio dell’Actv che controllava i ticket al Tronchetto: ma a che ora chiude Venezia?

Non serviva questa conferma per sapere che ormai è opinione comune che quella che un giorno fu un modello urbanistico inimitabile tanto da essere annoverato tra le utopie e le città del sole, un formidabile e instancabile archetipo organizzativo di governo del territorio, suolo, acqua, risorse, capace di contenere la potenza della natura e indirizzarla per trarne benefici e per fare della serenissima  una superpotenza temuta e invidiata, oggi è stata retrocessa a parco tematico, hotel diffuso, museo a cielo aperto come ci ha tenuto a ricordare il Salvini in visita pastorale.

La condanna comune alle citta d’arte qui trova la sua espressione più umiliante con la cacciata dei nativi espulsi dalle multinazionali del turismo, dalle grandi imprese immobiliari, dalle speculazioni di mecenati che si sono appropriati di beni comuni concessi dai loro complici nell’amministrazione locale e nazionale al fine di concludere vantaggiose operazioni con trasformazioni d‘uso:  ex manicomi convertiti in suggestivi resort, palazzi trasformati in residence per ricconi di serie b che non hanno avuto i mezzi per comprarsi un quartierino vista canalazzo, prestigiose foresterie di finanziarie.

Come può essere successo tutto questo? Come gli eredi di navigatori, mercanti, ingegneri, artisti hanno scelto di subire un destino così avvilente, espropriati e corrotti, o invece ricattati senza speranza, sradicati rabbiosamente e trapiantati?

Pare sia un male dell’animale urbano perdere la memoria e con essa la sua identità: Salvatore Settis in un libro dedicato proprio alle aberrazioni e agli oltraggi perpetrati a Venezia ricorda che la bellezza non è in grado di salvarci se gli ateniesi non seppero sottrarsi all’oblio di se stessi e della loro grandezza, tanto che di Atene non rimase nemmeno il nome, ridotta a villaggio miserevole di capanne e casupole che i pochi abitanti rimasti chiamavano Satines, indifferenti agli affronti inflitti al loro monumento simbolo,  che gli Acciaiuoli, duchi della città trasformassero i Propilei nel loro resort,  che i turchi ne facessero un deposito di munizioni cannoneggiato dal veneziano Morosini vittime e partecipi di una damnatio memoriae del loro passato.

Ma stiamo parlando di secoli fa, mentre oggi che Google garantisce eterno ricordo, che il mondo dovrebbe essere interconnesso anche grazie al continuo riprodursi di commemorazioni, celebrazioni, recupero di racconti e testimonianze,  non riusciamo a difenderci dall’espropriazione di quello che è nostro, che qualcuno di ha lasciato in prestito, che dovremmo contribuire a conservare e salvaguardare per tutelare la nostra identità e la nostra dignità?

Non consola che l’incarico morale di  rammentare Venezia sia affidato alle sue imitazioni, se per evocarla bastano un canale, sagome di palazzi che vi si specchiano spettrali, qualche gondola pari a neri feretri marinettiani che scivolano sul pelo dell’acqua. E di contraffazioni più comode, accessibili e low cost ce ne sono tante: dal Venetian Resort Hotel, 8000 stanze nel cuore di Las Vegas, al Venetian Tower, grattacielo riscattato alla cultura dai Guggenheim grazie a mostre su Tiziano o Pollock, dal Venetian Macao Resort con tanot di canali, gondole, Campanile, Ponte di Rialto e il Casinò più grande del mondo, al Viaport di Istanbul: 5 grattacieli affacciati su una laguna artificiale con barche, gondole, ponticelli su suggestivi scorci di canali, il cui slogan è: con Viaport puoi vivere Venezia senza lo forzo di andarci.

L’operazione di falsificazione non interessa solo Venezia. Il New South China Mall di Dongguan, in prossimità di Hong Kong che è stato per anni il centro commerciale più grande del mondo, ha al suo interno sette aree che imitano su scala nemmeno tanto ridotta scorci di Roma con Colosseo, Venezia con Campanile, Parigi con Torre Eiffel, Amsterdam con canali, il Cairo con Piramidi, i Caraibi con palmizi e la California con il surf su uno specchio d’acqua agitato da mega ventilatori.

Qualcuno suppone che questa coazione a ripetere i centri storici millenari della città d’arte ricompensi i paesi che si affacciano prepotentemente sulla scena economica e commerciale della povertà dei loro villaggi rurali e dei remoti paesi montani impervi e inospitali. Pare invece più probabile la supposizione che tutto congiuri a esporre sugli scaffali del supermarket della storia la versione più accessibile e comoda dei miti che ancora per poco animeranno l’immaginario collettivo. Ed anche la più compatibile con esigenze di carattere sanitario e profilattico, da quando l’obbligo di mantenere sanificata, disinfettata e disinfestata la nostra società ha fatto preferire le visite virtuali agli Uffizi, le gite scolastiche simulate con tanto di cestino da picnic da consumare in aula o meglio ancora in Dad, da quando un vanto di musei e gallerie d’arte consiste nell’esibire i dati dei follower, conquistato a loro dire, grazie all’esposizione non disinteressata dei quarti di bue doc di qualche influencer.

In Italia come d’altra parte fa capire l’atteggiamento disinvoltamente distruttivo dell’inossidabile ministro competente, potremmo fare anche a meno di costose infrastrutture che ospitano i nostri tesori, che esigono personale, e pretendono onerose manutenzioni, quando il nostro destino segnato è quello di diventare un susseguirsi di musei a cielo aperto nel quale i residenti trovano occupazioni e posti di lavoro in veste di osti, fattorini, autisti, facchini, guide, di parchi tematici spesso risultato di “emergenze” alimentate: miniere in disarmo, percorsi sacri nei siti investiti dal terremoto, città d’arte svuotate per convertirle in fertili speculazioni immobiliari a uso del turismo elitario, pur non abbandonando del tutto i profitti del consumo dissipato di quello di massa, guardato con disprezzo ma ancora sollecitato in modo da fornire sostegno a una economia familistica  e clientelare, quella dei B&B, delle case vacanze, dei localini che durano un anno, consumano i risparmi di genitori e nonni solerti e solidali e poi chiudono miserevolmente.

Pare che tutto il mondo sia destinato a diventare parco a tema. Venezia potrebbe già aspirare a consumare profittevolmente la leggenda del suo affondamento accompagnato dal fallimento della grande opera ingegneristica che doveva salvarla (il Commissario straordinario liquidatore Massimo Miani, indifferente al fatto che il prestigioso intervento sia inattivo, ha chiesto di essere pagato per le sua delicate funzioni “svolte da due anni” per un importo di 5 milioni di euro che vanno a aggiungersi alla voragine che ha portato i costi delle barriere  mobili (le concluderemo davvero nel 2023 proclama i Commissario) da un cosiddetto costo fisso di 5 miliardi e 493 milioni previsti a 6 miliardi e mezzo.

Ma di costruzioni di un passato artificiale da realizzare per toglierci il gusto di immaginarci e crearci un futuro concreto ce ne sono in giro per il mondo: nel Nord Europa da più di un secolo si delocalizzano intere porzioni di quartieri “disadattati” per trasferirli in siti più idonei dove  rigenerare una  immagine più idonea e gradevole del passato, in Germania da anni sono stati aperti musei all’aria aperta che affidano a un villaggio costruito ad hoc il mandato pedagogico di valorizzare la conoscenza della storia di quei luoghi.

E in fondo che differenza c’è tra questi outlet della storia e  Disneyland, che offre fiabe, eroi, mostri a cittadini diventati  clienti che si pagano sogni e incubi per sentirsi vivi fino all’ora di chiusura?

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