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Mi siedo e dimentico

KUANG TZU (399- 295)  a. C. Filosofo taoista
Critica a Confucio

Yen hui disse: “Io ho fatto progressi”

Confucio chiese “Cosa intendi dire?”

Yen hui rispose: “Ho dimenticato la solidarietà e la giustizia”

Confucio  disse: “Va bene. Però non è ancora tutto”

Il giorno dopo Yen hui tornò a farsi vivo e disse: “io ho fatto progressi”

Confucio chiese “Cosa intendi dire?”

Yen hui rispose: “Ho dimenticato i riti e la musica”

Confucio disse: “Va bene. Però non è ancora tutto”.

Il giorno dopo Yen hui tornò a farsi vivo e disse: “io ho fatto progressi”

Confucio chiese “Cosa intendi dire?”

Yen hui rispose: “Mi siedo e dimentico”.

Confucio si sentì a disagio e chiese: “cosa significa: Mi siedo e dimentico?”.

Yen hui rispose: “Lascio andare le membra del mio corpo e bandisco l’intelligenza. Mi separo dalla forma e accantono la conoscenza. Mi identifico con la grande totalità delle cose. Questo significa: Mi siedo e dimentico”.

Confucio disse: “Se per te e tutte le cose sono uguali, e non coltivi nessun tipo di attrazione per esse, ti trasformi e non hai consistenza, sei proprio un saggio! Chiedo di essere ammesso il tuo seguito.”

  • Brano tratto da LEONARDO ARENA “ANTOLOGIA DELLA FILOSOFIA CINESE” Mondadori 1991

Interpretazione libera.

Il breve dialogo immaginario del testo in questione ci parla delle polemiche fra i seguaci delle due grandi scuole filosofiche formatesi in Cina a partire dal VI secolo avanti Cristo: il Confucianesimo e il Taoismo, fondate rispettivamente da Confucio e Lao Tze.

L’autore del brano su riportato Kuang Tzu (399- 295) a. C. è uno dei principali filosofi taoisti.

Nel testo in esame l’interlocutore di Confucio, Yen hui, ci viene presentato come un uomo qualunque, forse un giovane, non particolarmente esperto di filosofia, ma convinto di aver maturato una visione del mondo o filosofia più valida del confucianesimo. Egli espone francamente, e senza timore reverenziale nei confronti del Maestro, le tappe del suo “progredire” nel pensiero filosofico.

Prima tappa: “Ho dimenticato la solidarietà e la giustizia”.

Si tratta di un’affermazione davvero impressionante e quasi sprezzante per Confucio che, a quanto leggiamo, aveva fatto della solidarietà e della giustizia i fondamenti della sua filosofia e pedagogia. Fondamenti, osserveremo ora, comunemente ritenuti centrali e indiscutibili anche nella tradizione della filosofia occidentale greco-romana-cristiana.

Seconda tappa: “Ho dimenticato i riti e la musica”. Anche in questo caso vengono demoliti altri pilastri della filosofia confuciana: il rispetto per la tradizione e per i riti che assicurano la coesione, l’ordine della società e la sua identità storica. Anche questa concezione come sappiamo trova largo consenso in autorevoli scuole della filosofia occidentale.

Terza tappa: “Mi siedo e dimentico” – più precisamente – “Lascio andare le membra del mio corpo e bandisco l’intelligenza. Mi separo dalla forma e accantono la conoscenza. Mi identifico con la grande totalità delle cose. Questo significa: Mi siedo e dimentico”.

Con queste affermazioni ci troviamo di fronte ad un modo di pensare che non solo risulta in antitesi al confucianesimo, ma rispetto alla filosofia occidentale è del tutto spiazzante.

Si tratta di una filosofia davvero paradossale, propone un modo di pensare che consiste nel “non pensare”; un pensare che non usa l’intelligenza e non cerca la conoscenza. Un “dimenticare” il pensiero.

Gli esperti di storia della cultura cinese ci consigliano di non giudicare sia il Confucianesimo che il Taoismo con le categorie della filosofia occidentale tutta assorbita dallo sforzo della ragione, dell’intelligenza, per la comprensione del mondo e per la ricerca del senso della vita mediante la conoscenza della verità.

Il brano in esame ci porta di fronte a problemi che meritano studi attenti e approfonditi che in questa sede non possono essere affrontati.

Il sottoscritto, inesperto di filosofia cinese, e ingenuo amatore della filosofia occidentale, esporrà ora una sua libera e discutibile interpretazione del pensiero di Kuang Tzu.

Esiste un punto di incontro fra la filosofia occidentale e quella orientale, e anche di tutte le altre filosofie che nascono e si sviluppano a tutte le longitudini e latitudini.

Il filosofare, il cercare le cause prime e le spiegazioni ultime del mondo e del senso della vita, ha origine dal bisogno dell’essere umano di vincere la paura della morte, detta anche angoscia esistenziale. Questa paura si forma nella mente di un soggetto pensante nel momento stesso in cui egli prende coscienza che il suo vivere si svolge in un periodo di tempo limitato. Il pensiero filosofico in definitiva consiste nel rendere sempre più chiara questa presa di coscienza. Ma con ciò esso crea un problema imprevisto: una coscienza più chiara della finitezza del vivere rende sempre più intensa l’angoscia esistenziale.

Secondo chi scrive la filosofia taoista di Kuang Tzu non offre una soluzione al problema dell’angoscia (che non ha soluzione) ma indica un modo di pensare che “sospenda” la sofferenza che essa procura. Propone quindi di “dimenticare il pensare”.

A ben guardare questa filosofia non è così inedita nella tradizione della filosofia occidentale. Citeremo per questo un solo esempio ma molto illustre e largamente condiviso. Giacomo Leopardi (poeta e filosofo) nella notissima poesia L’infinito ci espone un pensiero molto simile a quello di cui parliamo. Egli ci parla appunto dello stato della sua mente nei momenti in cui se ne sta “sedendo e mirando” dietro la famosa siepe e del “dolce naufragare” del suo pensare. Non è questo stato mentale molto simile al “Mi siedo e dimentico” del nostro brano?

La discussione su questa interpretazione resta naturalmente aperta a tutte le possibili critiche.

 

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