6 NOVEMBRE – La sesta edizione di “Lezioni di Storia – La guerra dei sessi”, organizzata al Teatro Petruzzelli di Bari in coproduzione tra la Fondazione e gli Editori Laterza, sta registrando come sempre un successo clamoroso da tutto esaurito. Sarà per il tema, sarà per la splendida cornice o per la professionalità dei relatori, quel che è certo è che la popolazione barese ha risposto ancora una volta attivamente alla proposta artistico-culturale dei due colossi del settore nel nostro territorio. Come preannunciato, l’attenzione quest’anno si sarebbe concentrata sulla relazione conflittuale tra donne e uomini e le svariate forme che ha assunto nella storia dell’umanità. In particolare, domenica scorsa si è tenuto “Violenza familiare: Artemisia, Agostino e Orazio” con il fine di trattare il delicatissimo argomento della violenza sessuale nel 1600 mediante la famosa vicenda giudiziaria della giovanissima pittrice Artemisia Gentileschi.
L’incontro ha avuto inizio con una breve introduzione a cura della giornalista Annamaria Minunno, la quale ha letto un passo del libro di Concita De Gregorio, intitolato Malamore: “Le donne hanno più confidenza con il dolore. È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da essere quasi amico. Ci si convive, è normale. Strillare disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformarlo, invece: ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta: ciascuna lo sa”.
A tenere la lezione è stato invitato Costantino D’Orazio, storico dell’arte, saggista e curatore presso la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, oltre che ospite di numerosi programmi televisivi Rai, quali Geo&Geo, Linea Verde e Unomattina in famiglia.
D’Orazio ha voluto sin da subito sottolineare che la sua lezione non avrebbe avuto come unico obiettivo lo sviscerare il rapporto tra l’uomo e la donna in questione, bensì di connettere a questo la possibilità di riflettere e aprire uno squarcio sulla società artistica della Roma seicentesca. E così è stato.
Il processo intentato dal pittore Orazio Gentileschi contro l’amico di famiglia e abile paesaggista Agostino Tassi per lo stupro di sua figlia appena diciottenne, Artemisia, dimostra non soltanto il ruolo della donna-oggetto proprio di quell’epoca, ma anche che – come si è soliti dire nel settore – “le opere belle sono create da anime brutte”. In quegli anni, infatti, non c’era artista che non avesse avuto problemi con la giustizia per il compimento di atti indegni. Lo stesso Tassi, infatti, era già stato incarcerato due o tre volte prima dell’accaduto, riuscendo comunque a cavarsela grazie a una forte protezione politica.
Per ottenere lo scopo desiderato, enunciato in incipit, lo storico D’Orazio ha ripercorso in maniera analitica ma scorrevole e coinvolgente, tutte le tappe – più o meno chiare e veritiere – della controversia per “stuprum et lenocinium” (atto sessuale avvenuto fuori dal matrimonio, unito allo sfruttamento della prostituzione), ricostruendo gli spostamenti dei protagonisti su una vecchia mappa di Roma e riportando le relative testimonianze ed interrogatori raccolti nel fascicolo dell’Archivio di Stato.
La violenza carnale aveva – e per molti ancora ha – un effetto negativo sulla famiglia della donna, vittima così non solo del sopruso, ma anche dell’onta su tutti i componenti del suo nucleo, destinati a non concludere mai unioni matrimoniali.
L’unica possibilità di riparare all’atto compiuto era una negoziazione economica, la c.d. dote risarcitoria, in quanto solitamente tutti i processi per stupro terminavano con l’archiviazione. Dall’excursus storico, infatti, emerge che anche questa causa ebbe lo stesso prologo. La certezza non l’abbiamo: si tratta di una vicenda rimasta ambigua e melliflua, in cui la giustizia tanto bramata era affidata alle parole di persone potenzialmente affidabili e le cui versioni presentate risultavano in qualche modo plausibili agli occhi del PM, Francesco Bulgarello.
Tassi, da vero smargiasso, negava di aver abusato della giovane e accusava Orazio Gentileschi di essersi inventato il fatto innanzitutto per non pagargli i lavori svolti insieme e per non restituirgli i prestiti ricevuti, ma anche per cercare di salvare il buon nome della sua famiglia esposta alla vergogna dalla leggerezza e facilità della figlia Artemisia, la quale – a sua detta e dei garzoni che portò a testimoniare – era solita accompagnarsi a molti uomini del quartiere.
Quella che è stata tratteggiata durante il processo è, dunque, una figura femminile ignobile, le cui onestà e virtù sono state totalmente infangate. Occorre, però, sottolineare che Artemisia in seguito alla violenza, venne sedotta anche dalla proposta di matrimonio che Agostino più volte le aveva promesso ma che in realtà non è mai stata compiuta.
A dimostrazione di ciò, infatti, è scritto che quando la ragazza sotto giuramento venne sottoposta alla tortura dei sibilli – ossia quando le vennero legate delle cordicelle intorno alle dita stringendole per forzarla a dire la verità (atto deleterio per un’artista) – mostrò al giudice un anello che portava alla mano, sostenendo fosse dono di Tassi come pegno della promessa di matrimonio appunto.
L’esito della causa vide come colpevole l’uomo, non solo condannato a pagare la dote, ma anche all’esilio. In realtà però egli riuscì a non lasciare mai Roma e ad agire indisturbato per anni, mentre Artemisia, che in tutta la faccenda fu solo una povera vittima, per ricominciare una vita lontana dalla spregevole fama che ormai le perseguitava, si sentì costretta a lasciare la sua città e a trasferirsi a Firenze, dove il padre le aveva combinato un matrimonio riparatore con il pittore Pietrantonio Stiattesi. Costui venne scelto da Orazio appositamente tra professionisti del mestiere affinché potesse accompagnare la figlia nelle questioni economiche legate al lavoro di pittrice, in quanto le donne non potevano all’epoca maneggiare denaro o concludere contratti di alcun tipo.
“Artemisia Gentileschi merita di essere ricollocata nella storia non per le vicende personali, ma per il suo talento artistico, l’intensità barocca e la qualità dei suoi dipinti” – ha concluso lo storico Costantino D’Orazio tra i consensi unanimi del pubblico del Teatro Petruzzelli.