13 NOVEMBRE 2022 – “Quanto può resistere un uomo sott’acqua senza respirare?” Questa, la frase che è più volte risuonata tra le mura dell’auditorium di Casa delle Culture a Bari. Il Centro Polifunzionale, finanziato con fondi PON Metro 2014-2020 dall’assessorato al Welfare del Comune di Bari e gestito dalla cooperativa sociale Medtraining in ATI con San Giovanni di Dio, è stato la cornice perfetta per la proiezione del cortometraggio “BORGES” di Andrea Cramarossa. Il lavoro proposto dal regista barese ha come obiettivo quello di dar voce alle storie di tutti coloro che – spinti dal desiderio di salvarsi dalla guerra e dalla povertà e di scrivere un futuro diverso per le loro vite – hanno affrontato un viaggio della speranza attraversando deserto e mare, sino alle nostre coste.
È proprio il mare, insieme al suono della natura, ai giochi di luce e agli animali giocattolo tenuti tra i palmi delle mani dei protagonisti, a fare da sfondo e scenografia per l’intera videonarrazione. Abbiamo ascoltato con attenzione, in rispettoso silenzio e con luccichio negli occhi, i racconti (in lingua originale sottotitolati) di Searus Aynsley, Karim Orome, Toulibaly Mohamed Seba e Fousseyni Sissoko. Le loro parole, permeate di sofferenza, distruzione e impotenza da un lato e di serenità, indipendenza e socialità dall’altro, sono state appositamente intervallate per sottolineare e condurre a una profonda riflessione su uno dei temi che più attanaglia da secoli l’uomo: il binomio libertà-oppressione.
“Ho sempre cercato qualcosa che potesse salvarmi”, ha affermato Fousseyni, che scappato dalla guerra in Mali, è stato in prigione per otto mesi in Libia e, solo dopo aver oltrepassato la Tunisia, è riuscito ad arrivare in Italia. Una volta a Bari, l’iter è uguale per tutti: quarantena, Questura e dritti al campo CARA – Centro Assistenza Richiedenti Asilo. In quel momento sono salvi davvero. La fuga è terminata, eppure “Ho lasciato la mia terra per sempre, non la rivedrò più” ha dichiarato Karim.
Perché è vero che hanno raggiunto la libertà tanto bramata, ma il costo che hanno dovuto pagare a livello psicologico è inimmaginabile per noi. Si ritrovano qui, lontani da bombe, morte, urla, violenza, ma tristi per aver perso la propria famiglia, il senso di casa e di appartenenza a una comunità e con il timore di aver rinunciato a tutto ciò per un futuro migliore che nessuno gli garantisce.
Il corto si è concluso con una struggente canzone africana, durante la quale tra le sedute hanno cominciato a muoversi, imbracciando ognuno una grande valigia, i quattro interpreti dell’atto performativo, sempre curato da Cramarossa, “Perché le mie ali sono fatte di sabbia”. Questa volta non è l’audiovisivo a parlare, ma il teatro e l’arte recitativa di Caterina Firinu, Federico Gobbi, Domenico Piscopo e Cristina Siciliano, chiamati a dare corpo e voce alle testimonianze di donne e uomini che nel loro lungo peregrinare hanno perso tutto: la razionalità, l’identità, la dignità…la vita.
Hanno iniziato con un dialogo molto serrato, ricco di domande incalzanti, tra un richiedente asilo e un agente della questura, tutto basato sulla necessità di appurare l’anagrafica dell’immigrato, la sua storia fatta di cadaveri, macerie e solitudine, ma soprattutto le sue intenzioni per l’avvenire:” – Mi dica, perché è venuto in Italia? – Io…vorrei soltanto un po’ di Pace“.
Il monologo che ne è seguito è stato effetto climax immediato. Una madre, che in preda alla disperazione si tirava nevroticamente pizzichi al braccio destro, per cercare di ritrovare quel contatto naturale che la collegava con suo figlio, scivolatogli in mare a causa della burrasca che ha colpito quello che sarebbe dovuto essere il loro barcone della salvezza. Ma che salvezza è, se lei è morta dentro. “Avete un po’ di pelle? – ha chiesto incessantemente tremando e con gli occhi straripanti di implorazione – Devo ricostruire mio figlio sul braccio affinché possa dormire ancora su di esso”. Chissà quanta è la forza necessaria a perdonarsi, a non farsi annientare dal senso di colpa per la mancata protezione della propria carne e del proprio sangue. Chissà come riescono tutte le innumerevoli mamme che hanno perso negli anni i loro figli a portare ogni giorno dentro un tale dolore e comunque a cercare una rivincita su questa disgrazia con la consapevolezza che “Ora mio figlio è pesce, è clessidra perché si volta e rivolta nel mare per segnare il tempo che passa senza di me”.
L’ultima performance ha proposto un altro calvario: gli abusi, gli stupri, le torture che subiscono le donne nei centri-raccolta, i lager. In particolare, è stata raccontata la vicenda di una ragazza di colore violentata da cinque guardie per dieci interminabili volte in una camerata piena di ragnatele e peccato morale. “Mi hanno fatta ingoiare sabbia e catrame e allora con la sabbia mi sono costruita delle ali e sono volata. E volerò, mi lancerò nel vuoto del cosmo. Ecco cosa voglio: la libertà dai ricordi”. Un sogno che permetta di dimenticare coloro che per noia, delirio di onnipotenza e puro istinto animalesco distruggono giovani vite e la dignità della loro pelle.
Rivolti verso il pubblico, i quattro attori – ancora perfettamente nei loro ruoli – all’unisono hanno lasciato cadere ognuno la valigia che li ha accompagnati fin lì. “Cosa contiene la sua valigia? Un po’ di speranza”. Hanno distribuito rose ai presenti con in sottofondo “Everybody Hurts” dei R.E.M. e hanno concluso così in un caloroso, lungo e meritatissimo applauso.
Casa delle Culture respira di accoglienza e integrazione, respira di occasione per parlare, per aprirsi ed entrare in contatto con l’altro da sé, per comprenderne tristezze e sogni, per non farlo sentire mai più “residuo”. Grazie al rito dell’Arte che ci dona tutto ciò e ci ricorda di essere umani con gli altri esseri umani.