Negli ultimi anni a Istanbul il copione visto venerdì scorso (proteste, 200 donne arrestate e poi rilasciate) è andato in scena sistematicamente ogni 25 novembre, ogni 8 marzo, in occasione di gay pride e di marce di solidarietà nei confronti di dissidenti politici in carcere
di Giuseppe Didonna
AGI – Sono state quasi tutte rilasciate le più di 200 donne arrestate dalla polizia turca lo scorso sabato a Istanbul, dopo che le forze dell’ordine sono intervenute per bloccare una marcia indetta in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Mancano all’appello dei rilasci un’italiana, Dalila Procopio e un’attivista dell’Azerbaigian, trasferite in un centro da dove attendono di essere rimpatriate.
Il fatto che la marcia fosse prevista nello stesso luogo dove è avvenuto l’attentato del 13 novembre scorso non è servito a placare le proteste. La manifestazione infatti quando non eè stata vietata ha assunto toni sempre pacifici, convogliando una partecipazione imponente e negli ultimi anni i divieti erano arrivati anche senza attentati.
La decisione della prefettura, già di per sé controversa, si è però concretizzata in una presenza a dir poco imponente di forze di polizia, in assetto antisommossa, che hanno letteralmente militarizzato 4 quartieri della città. Il traffico è andato in tilt, transenne sono state poste a sbarramento delle principali strade di accesso all’area della marcia e i disagi sono stati acuiti dalla temporanea sospensione del servizio di due fermate della Metropolitana e una linea di funiculare.
Condizioni che hanno reso impossibile per migliaia di manifestanti raggiungere la manifestazione e creato momenti di tensione nel centro della città, tra persone che volevano unirsi alla marcia, semplici residenti o tra i tanti che normalmente affollano l’area di sabato sera.
Presupposti che hanno fatto si che alla manifestazione partecipassero poche centinaia di persone letteralmente attorniate e asfissiate da un numero di agenti in assetto antisommossa nettamente superiore. Che un apparato così imponente debba essere messo in campo per bloccare una manifestazione contro la violenza sulle donne è indicativo innanzitutto del fatto che il governo turco consideri oppositori coloro che partecipano alla marcia.
Tra gli slogan dei gruppi femministi e Lgbt-Q non manca mai il riferimento al protocollo di Istanbul contro la violenza di genere, che il governo del presidente Recep Tayyip Erdogan ha deciso di abbandonare nel 2021 tra roventi polemiche. Inevitabili in un Paese che ha nel femminicidio una vera e propria piaga (354 donne sono state uccise da uomini nel 2022 ndr).
Allo stesso tempo un tale schieramento di forze mette in risalto uno dei veri nodi critici dell’amministrazione Erdogan che riguarda appunto la stretta sulla libertà di manifestare. Negli ultimi anni a Istanbul il copione visto venerdi è andato in scena sistematicamente ogni 25 novembre, ogni 8 marzo, in occasione di gay pride e di marce di solidarietà nei confronti di dissidenti politici in carcere come Osman Kavala o per la libertà di stampa.
Tutte manifestazioni e sit in che negli anni in cui non venivano vietate hanno potuto contare su grande e pacifica partecipazione, ma su cui è ormai calata una vera e propria scure. Uno spettacolo che lo scorso venerdi per dimensioni ha superato i limiti della decenza e che stride con l’immagine che la Turchia ha assunto sul panorama internazionale.
Un Paese che ha conquistato con un’opera diplomatica e politica pragmatica e incisiva un posto di primo piano nella crisi Ucraina e nella Nato e che è sempre più importante per l’Europa su temi cruciali come energia e migranti, mostra ancora una volta un lato oscuro, una falla enorme sul tema delle libertà civili.
La decisione della prefettura rispecchia in pieno la linea del governo e l’intervento della polizia, avvenuto anche lo scorso anno, rimane difficilmente comprensibile in un Paese in cui oltre alle 345 morti del 2022 pesano le 425 del 2021 e le 415 del 2020 (dati Piattaforma turca contro il femminicidio, le molestie e abusi su Minori ndr).
Un filo nero che lega la Turchia di oggi con un passato con cui un Paese che si sta imponendo a livello internazionale deve fare i conti. Le donne turche chiedono che la Turchia torni ad aderire al Protocollo di Istanbul sulla violenza di genere, da cui Erdogan ha deciso di recedere. Nonostante il leader turco abbia poi inasprito le pene per i reati contro le donne, rimane emblematico l’abbandono del protocollo, oltre alle preoccupazioni della comunità Lgbt-Q.
Sono tuttavia i numeri a esigere un sistema di tutele preventivo più efficace per coloro che sono vittima di minaccia, violenza domestica e maltrattamenti; tutti segnali che, gli attivisti denunciano, vengono spesso sottovalutati dalle istituzioni e dalle forze dell’ordine. Secondo le organizzazioni per i diritti delle donne riunitesi in Turchia la maggior parte dei femminicidi sono vere e proprie tragedie annunciate e auspicano, oltre a misure concrete, un cambio di mentalità nella società turca.