Stefano Petruzzelli, classe 2001, è nato ad Ancona ma dall’età di otto anni vive ad Adelfia, paese in provincia di Bari dove prosegue il suo percorso formativo e coltiva le sue passioni quali la lettura, lo sport, la corsa, la politica e i viaggi. È diplomato al Liceo linguistico, studia attualmente Giurisprudenza all’Università “Aldo Moro” di Bari ed è al tempo stesso arbitro di calcio. Ha pubblicato il suo primo libro “Quando arrivano gli struzzi” lo scorso 22 settembre per Altromondo Editore, nella collana “Mondo di oggi”.
Conosciamolo meglio.
È questo il tuo esordio nel mondo dell’editoria. Cosa ti ha spinto a iniziare a scrivere?
L’opportunità di ritrovarmi chiuso in una stanza per qualche settimana (ride, ndr). Una chiusura forzata dalla quarantena per la positività al Covid-19 proprio agli inizi della pandemia, che mi ha permesso – tra una lezione universitaria in distance e l’altra – di avere molto tempo a disposizione da dedicare a un desiderio ben maturato. Mi son detto: “Sfrutta questo momento di sconforto e di grande riflessione per buttar giù le tue idee!” e così ho fatto.
E l’ispirazione da dove ti è nata?
Dico sempre che ho il difetto-pregio di ragionare molto soprattutto sulla nostra società, sulle considerazioni di amici o familiari e banalmente sulla quotidianità e le varie situazioni che vivo. Ho messo insieme tutto ciò che scaturito da questo continuo pensare e il risultato finale è stato un racconto scritto da un giovane, sui giovani e per i giovani.
“Quando arrivano gli struzzi” è il titolo del tuo libro. Ce ne spieghi il significato e il contenuto?
Il titolo è chiaramente metaforico e fa riferimento all’azione degli struzzi di abbassare la testa mettendola nella sabbia. Il comunissimo detto “non mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi”, infatti, rimanda alla persona che non vuole guardare in faccia la realtà o non vuole rendersi conto di evidenze anzi preferisce rimanere all’oscuro, ignorare tutto. Questo è il senso che ho voluto dare al mio scritto, perché ritengo che arrivi nella vita di ognuno di noi – specialmente in adolescenza e prima accade, meglio è – quel momento in cui davvero “apriamo gli occhi” e realizziamo di aver vissuto fino ad allora senza vedere. Tale stravolgimento di pensiero può essere innescato da un qualsiasi avvenimento o da un film, da un libro, una canzone che ci svela una realtà che prima non conoscevamo, oppure che ci spinge a guardarla da un diverso punto di vista. La mia, quindi, è un’esortazione ad approcciarci alla vita in modo maturo e non più superficiale. Gli struzzi di cui parlo nello specifico sono dei ragazzi di Bari, come me, presi dall’insofferenza nei confronti dello studio, dalla passione per lo sport, dai litigi, gli scherzi, persino dagli amori…insomma, l’assoluta normalità. A un certo punto, un evento apparentemente inspiegabile rompe lo status quo e stravolge l’esistenza del protagonista della storia, Pietro. Il suo modo di vivere cambia radicalmente e l’esperienza che ha vissuto gli apre una ferita insanabile che diventa un esempio per i suoi compagni ancora nel torpore della superficialità.
Hai parlato di “assoluta normalità” anche nel prologo. I grandi della letteratura hanno sempre, o quasi, delineato personaggi sui generis o controcorrente. Nel tuo racconto, invece, prediligi la normalità. Perché? Quale credi sia il suo valore aggiunto?
Parlare di persone “normali” è effettivamente la scelta portante del mio libro e la ritengo anche io un valore aggiunto, in quanto è funzionale all’avvicinamento di un lettore occasionale o non solitamente avvezzo alla lettura. Descrivendo tipici ragazzi d’oggi, facilmente immedesimabili nella quotidianità e nelle prospettive di ciascun ventenne o adolescente del 2022, ho voluto ridurre la distanza tra il racconto e il vissuto personale del fruitore.
Possiamo affermare che il grande tema sono le relazioni interpersonali. C’è qualcosa di autobiografico o è solo frutto di tue considerazioni?
La seconda (ride, ndr). Come ti ho detto precedentemente, ho una forte attitudine all’osservazione e alla riflessione circa le dinamiche più diffuse nella mia generazione, che siano primi amori o amicizie e ciò che spesso ne consegue, ossia distacchi e perdite. Di autobiografico non c’è quasi nulla e dico quasi perché le vicende di cui ho scritto non derivano da esperienze vissute in prima persona, ma essendomi state raccontate da altri, le ho conosciute indirettamente e, quindi, ormai in qualche modo mi riguardano.
Nel libro parli del “perpetuo sonno della mediocrità”. Cos’è per te e come pensi si possa sconfiggere?
Io vedo la mediocrità come una vera piaga sociale, perciò ritengo che ogni giorno ognuno di noi debba sfidarla e far qualcosa per uscirne. Gli esseri umani, si sa, nascono soli e mediocri, appunto, in uno stato quasi di sonnolenza, che piano piano – con l’ausilio di diversi mezzi, quali possono essere lo studio, l’informazione, una conversazione stimolante con una persona cara o la lettura di un libro – si abbandona e consente di raggiungere un secondo strato dell’esistenza. Dovremmo tutti cercare di conquistare questa consapevolezza e condurre la nostra vita approfondendola, andando oltre una prima visione spesso distorta o equivoca. Altrimenti, rischiamo di incrinare, a volte in maniera irreparabile, i nostri rapporti con le persone che ci circondano. Per tale motivo la considero una grande sfida, soprattutto per me e i miei coetanei, sfida che io ho tentato di vincere attraverso l’esperienza e la conoscenza. Non sono un traghettatore, non ho la chiave o la risposta corretta, ma mi auguro con il mio libro di riuscire ad aprire in qualcuno un piccolo percorso quantomeno di riflessione e di speranza.
Qual è, quindi, il messaggio che vuoi lanciare ai tuoi lettori?
Nel mio ridotto vissuto sono sempre stato accompagnato da una forte convinzione: tutto ciò che di negativo ci accade, che dipenda da un errore personale o da una circostanza esterna, non va accolto in maniera passiva ma, al contrario, deve essere assorbito con resilienza, in modo tale da trarne insegnamento e forza. Le mie trascurabili esperienze, infatti, mi hanno insegnato a reagire, in rare occasioni anche da solo, senza l’aiuto di nessuno. Perciò, voglio raccontare a chi si appresta a leggere questa storia che reagire in periodi complicati si può.
Nell’epoca del pieno controllo digitale, dei video virali su Tiktok, dei podcast su Spotify e del proliferare di youtubers e influencers, tu, seppur figlio della stessa, in totale controtendenza, hai scritto un libro mantenendo stretto il rapporto con il cartaceo e la materialità. Qual è il tuo pensiero a riguardo?
Innanzitutto in questo rapporto ci credo fermamente. Di solito preferisco sempre il cartaceo al digitale, perché regala qualcosa di impareggiabile: sfogliando un libro e leggendolo, attraverso semplici parole scritte, alimentiamo la nostra immaginazione in quanto riproduciamo mentalmente scene e persone, proviamo emozioni, udiamo suoni non udibili nella realtà, percepiamo odori inesistenti in atmosfera. E questo è il potere del libro, pura magia per me. Chiaramente poi, come hai detto tu, sono figlio di una generazione social, li utilizzo anche io – seppur in maniera moderata – e faccio largo uso degli apparecchi tecnologici per lo studio. Nonostante ciò, credo che non abbandonare la materialità sia un punto di forza e un aspetto tradizionalista da conservare e preservare.
All’università studi Giurisprudenza, sei un arbitro di calcio e ormai anche un autore. Nel tuo futuro ti vedi scrittore?
Sono sincero, mi piacerebbe molto ma ad oggi non lo so. Che una Casa Editrice abbia voluto pubblicare quello che ho scritto, ossia le mie idee, era per me già impensabile qualche anno fa ed è tutt’ora incredibile. Se scriverò ancora in futuro sarà perché avrò qualche nuovo spunto di riflessione da voler condividere con la gente, che possa essere utile anche a una sola persona.
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