Da sempre simbolo di avvenenza, i capelli lunghi e curati sono lo stendardo del mondo femminile. Privare una donna dei suoi capelli equivale a toglierle la dignità. Questa dinamica era utilizzata nei lager nazisti o, alla fine del II Conflitto Mondiale, per punire le collaborazioniste dei regimi dittatoriali.
Anche nel Medioevo, privare una donna dei suoi capelli era marchio d’infamia. Il giovane innamorato dell’opera Contrasto di Cielo d’Alcamo (vissuto tra XII e XIII secolo), all’amata desiderosa di farsi monaca rispondeva che avrebbe preferito uccidersi piuttosto di vederla con i capelli rasati.
Francesco Barberino, notaio e poeta vissuto tra Duecento e Trecento, così descrive la protagonista di un breve racconto: “era molto bella e i suoi capelli aveva molto cari, e certo di ciò non mi meraviglio, che molto gli avea belli.”
I capelli corti inficiavano sulla bellezza femminile e, se prescritti da una autorità, erano punizione infamante: alcuni ordinamenti medievali la imponevano alle meretrici colpevoli di crimini contro la morale. Nel Malleus Maleficarum, pubblicato nel 1487 dagli inquisitori domenicani Heinrich Kramer e Jacob Sprenger, si prescriveva la rasatura del capo al fine di infrangere l’incantesimo che permetteva alle imputate di non confessare.
Consigli di lettura:
V. Zallot, Sulle teste nel Medioevo. Storie e immagini di capelli, Il Mulino, 2021