La quindicesima riunione della Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica (COP15), iniziata a Montreal (Canada) il 7 dicembre e che proseguirà fino al giorno 19, ha radunato i rappresentanti di 193 Paesi membri delle Nazioni Unite per discutere gli importanti obiettivi da realizzare circa la questione della biodiversità globale. Questa edizione del meeting, presieduta dalla Cina, ha già dichiarato un fine molto più chiaro del solito: tradurre in pragmatismo l’impegno a favore dell’ambiente entro il 2030.
Ma il vessillo del “verde” non sembra sempre portare a proposte attuabili e sensate…
La questione che maggiormente starebbe dividendo e accendendo il dibattito in seno alla Cop15, infatti, riguarderebbe il progetto “30×30“, un’ambiziosa iniziativa secondo cui, entro otto anni, un terzo del pianeta dovrebbe diventare zona inaccessibile ai popoli, intoccabile e protetta.
Il piano dell’ONU minaccia le piccole comunità che vivono di biodiversità (costando assai)?
La messa in atto del “30×30” prevede la decontaminazione umana di vaste aree marine e terrestri, che diverrebbero non più fruibili né abitabili. Questo comporterebbe un impatto economico e sociale significativo specialmente per gli Stati più poveri e in via di sviluppo, tra i quali Indonesia, Brasile, Kenya, India, Filippine, Nepal e Congo. In questi Paesi, dove il variegato biologico è ricco e vitale, le terre coinvolte in questa vision sono state tradizionalmente preservate per secoli da popolazioni indigene scarsamente numerose, che rappresentano circa il 5% del censimento locale.
La trovata dell’ONU, ora, starebbe minacciando di espellere questi autoctoni, cresciuti a contatto diretto ed esclusivo con la natura, dai confini che hanno a lungo abitato e protetto.
Per raggiungere gli obiettivi del “30×30” però, i Paesi delle Nazioni Unite avranno bisogno di supporto economico, incluso un contributo elargito dall’Italia (anche se nessuna zona terrestre (non marina…) del Bel Paese venisse coinvolta nel progetto, ad esempio, il nostro governo potrebbe dover “donare” un po’ di miliardi di euro ad un altro Stato interessato, tipo la Tanzania). Il fondo totale che l’ONU avrebbe previsto come necessario all’attuazione del piano ammonterebbe circa a 384 miliardi di dollari annui.
C’è chi dice no (e chi dice “ni”)
Le posizioni contrarie a questa bozza di testo, che deve essere approvata perentoriamente entro il 17 dicembre, sono numerose: alcuni ritengono che l’obiettivo del 30% non sia sufficiente e opterebbero almeno per il 50% di area tutelata o confiscata; alcuni lo considerano un’utopia irrealizzabile (se non molto peggio1); altri, infine, sottolineano come questa iniziativa violi troppi diritti umani, oltre a presentare evidenti limiti finanziari dovuti specialmente al contesto storico-economico che stiamo vivendo.
Da registrare che, mentre gli Stati Uniti (favorevoli alla misura) non partecipano al progetto poiché non sono firmatari del primo trattato sulla biodiversità, l’Unione Europea avrebbe proposto di garantire l’accesso alle compagnie estrattive anche nelle zone “intoccabili”, a condizione che non danneggino nessun equilibrio naturale. Resta chiaramente un ennesimo interrogativo il come chi si occupa di trivellazioni possa contribuire positivamente all’ecosistema, o almeno non nuocere, estraendo risorse.
Ma la questione dei dubbi e del rapporto tra UE e lobbisti… è un’altra storia.
Fonti online:
ByoBlu (testata giornalistica ed emittente televisiva nazionale; articolo di Arianna Graziato del 14 dicembre 2022), sito dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), Wikipedia, sito istituzionale del Consiglio europeo, sito del progetto “30×30 Italia“, Materia Rinnovabile, Rights and Resources Initiative (RRI), The Guardian.
Canali YouTube: Worldrise Onlus, ISPRA Streaming – Dirette.
Antonio Quarta
Redazione Corriere di Puglia e Lucania
Note di riferimento:
- Secondo quanto sostiene il Rights and Resources Initiative, infatti, si dovrebbe prendere insegnamento dall’esperienza passata visto che, tra il 1990 e il 2014, oltre 250.000 persone sarebbero già state espulse dai loro territori per creare parchi naturali e che, con il 30×30, la cifra delle comunità indigene separate dalle proprie terre ancestrali potrebbe essere di gran lunga superiore.