Vivienne Westwood ed Elena Gianini Belotti sono entrambe morte in questi giorni. Due morti passate un po’ in sordina a causa del traboccante clima di festa e consumismo dei paesi occidentali, ma le loro vite meritano di essere commemorate.
I più giovani avranno avuto modo di conoscere la stilista inglese grazie a TikTok e al ritorno della moda degli anni ’80 e ’90 e di conseguenza della già celeberrima collana di perle con globo. Gianini Belotti, invece, è stata poco ricordata negli ultimi anni, ma andrebbe riscoperta poiché ha ancora molto da insegnare.
Vivienne Westwood e Elena Gianini Belotti sono due colossi culturali a cui ancora dobbiamo molto. Probabilmente, qualcuno rizzerà il naso nel leggere i nomi di queste due professioniste nella stessa frase, eppure, oltre a dovere molto tutte e tutti ad entrambe, sia Westwood che Gianini Belotti hanno rivoluzionato costume e pensiero, sdoganando tabù e ridisegnando il ruolo delle donne -ma non solo- nella società.
Stilista e attivista inglese la prima, pedagogista, insegnante e scrittrice italiana la seconda.
A modo loro, ambedue pioniere, ribelli e punk.
Vivienne Westwood è stata e continuerà ad essere un’icona irraggiungibile per i suoi colleghi, una pirata (la sua prima sfilata si chiamava proprio Pirate) indomita che non aveva timore di sfidare il pensiero imperante, rompendo definitivamente con le logiche del potere londinese e con il mondo hippie, abbracciando uno stile di vita, oltre che le sonorità, più rock e punk. A proposito di punk, basterebbe ricordare il suo sodalizio con i Sex Pistols. Il loro stile nacque al 430 di King’s Road, nella boutique di Westwood e dell’allora suo compagno e manager della band McLaren. Fu proprio la stilista a plasmare la loro immagine e a creare lo stile punk di cui fu dunque madre e pioniera.
In piena recessione, i ragazzi non si sentivano più rappresentati e avvertivano l’urgenza di manifestare la propria rabbia e il proprio disappunto anche con l’abbigliamento, rompendo con il passato e con le generazioni che aveva trascinato la Gran Bretagna in quello stato.
Dichiararono guerra al torpore e al conformismo e cominciarono a intendere anche il corpo come uno spazio personale e come immediato mezzo di comunicazione.
Via le giacche austere, i completi dei “figli dei fiori” e gli inflazionati simboli della pace.
Vivienne Westwood si fece portavoce delle loro istanze, rivoluzionando una volta per tutte il costume.
Borchie, piercing, trucco marcato per gli uomini e per le donne. La moda sfuggiva definitivamente alle perentorie raccomandazioni di quelli che Catullo avrebbe chiamato i “vecchi pedanti” e diventava un fenomeno di costume.
Ma, oltre ad abbattere tabù a suon di magliette con slogan volutamente provocatori, Westwood unì per la prima volta la crinolina alle borchie, alla pelle, al nero e si colori chiassosi, alle catene (celebre quella che Sid Vicious indossava a mo’ di collana con tanto di lucchetto, ripreso poi dall’anime e manga “Nana”, che dell’estetica di Westwood fece un suo cavallo di battaglia) e soprattutto alla spilla da balia.
Insomma, il più tradizionale degli ornamenti degli abiti femminili di età vittoriana veniva rivisitato e unito alla pelle e al pattern geometrico degli altrettanto tradizionali kilt scozzesi, in un gioco che mirava ad abbattere gli stereotipi:
la donna non era solo pizzi, crinolina e merletti, ma non doveva nemmeno indossare necessariamente abiti dal taglio “maschile” per essere ritenuta pari dell’uomo, indipendente o rivoluzionaria. In poche parole, la donna, con Westwood, si riappropriava del proprio corpo e della propria libertà e trovava un suo posto in una società, come quella londinese degli anni ’70 e ’80, costantemente in cambiamento e contraddizione, distinguendosi per la propria voce e la propria personalità.
Se Westwood abbatteva gli stereotipi e i luoghi comuni con l’estetica, Elena Gianini Belotti lo fece con la penna.
La pedagogista, scrittrice e direttrice del Centro Nascita Montessori di Roma, scardinò i consueti e vetusti paradigmi educazionali, i quali prevedevano per i bambini baionette giocattolo e per le bambine bambole da accudire come mamme provette. Bambine e bambini educati, insomma, attraverso schemi rigidi che non permettevano alle prime di sognare una vita fuori dalle mura domestiche e di imparare ad essere assertive e indipendenti e ai secondi di mostrare “debolezze” e fragilità.
Soldatini e mammine, rudi e docili, questo dovevano essere. Inflessibili “padroni” di casa e accoglienti angeli del focolare.
Un’educazione, quella criticata da Belotti, che non permetteva al singolo di esprimersi e di sfuggire a regole che non avevano alcuna base scientifica.
La prima edizione del suo libro “Dalla parte delle bambine” arrivò in libreria nel 1973.
All’epoca, sia l’autrice che la casa editrice non avevano immaginato il grande successo di pubblico che invece l’opera raggiunse. Il libro fu effettivamente rivoluzionario per i contenuti e per l’impatto che ebbe sul costume e sui costrutti sociali italiani degli anni ’70.
<<Il maschio spacca tutto è accettato, la femmina no. La sua aggressività, la sua curiosità, la sua vitalità spaventano e così vengono messe in atto tutte le tecniche possibili per indurla a modificare il suo comportamento.>>.
Questo periodo, tratto proprio da “Dalla parte delle bambine segnò una vera rottura con il passato, un cambio di rotta in ambito pedagogico.
La bambina non doveva più essere educata alla remissività e al sacrificio. Il bambino non doveva più essere educato alla violenza, né verbale né fisica, né tantomeno a quella che oggi definiamo “mascolinità tossica”.
Entrambi, invece, potevano permettersi di essere fragili, arrabbiati e curiosi allo stesso modo.
Scontato, forse, oggi.
Nondimeno, in questo senso c’è ancora molto da studiare, dire e costruire. Perché ciò che può apparire scontato e naturale per alcuni, non lo è ancora, nonostante i decenni passati, per molti altri.