Si torna a parlare dell’autonomia differenziata, ovvero dell’attuazione dell’art.116 comma 3 della Costituzione. Che prevede, tra le 23 materie sulle quali alle regioni ordinarie sono attribuite, “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, anche la “tutela della salute”, sulla base di apposite intese che devono poi essere approvate a maggioranza assoluta con legge dal Parlamento. La riproposizione dell’argomento contenuto nella bozza di ddl del ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, il leghista Roberto Calderoli, suscita grande preoccupazione. In quanto si introdurrebbe una modifica sui Livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Si tratta di quegli standard minimi che ogni Regione, nell’erogare i servizi pubblici a essa demandati, deve rispettare, per garantire i diritti sociali e civili dei cittadini, a prescindere da dove vivano. Luca Zaia, presidente del Veneto e voce di spicco del movimento autonomista, è stato tra i primi ad aver avviato il percorso verso un’ulteriore devoluzione del potere dallo Stato centrale ai governi regionali. Questa mossa ha chiaramente lo scopo di indebolire lo Stato e diminuire il contributo fiscale che il nord invia a Roma, e attraverso di essa, al sud. Di fatto le Regioni potranno tenersi quota parte delle entrate fiscali. Dunque, autonomia regionale differenziata contro Unità. Vecchia questione, ma sempre attuale, forse perché non è mai stata risolta in maniera corretta. Si tratta di una questione che era stata largamente dibattuta tra il 2017 e il 2020 (facendo seguito ai primi tentativi promossi da alcune Regioni tra il 2006 e il 2009) coinvolgendo i diversi governi che si sono succeduti in quel periodo sino alla crisi pandemica, per poi riaffacciarsi, più timidamente, durante il governo Draghi.
L’Italia si spacca sull’autonomia differenziata?
La questione italiana presenta dei profili assolutamente sui generis. Da quando “la squadra di governo più bella del mondo”, affermava di “ricucire ciò che è strappato, riannodare i fili del nostro stare insieme, riscoprirsi comunità”, oggi invece il sentimento secessionista riaffiora prepotentemente. Dunque, “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, la celebre frase di Massimo d’Azeglio, pronunciata all’indomani della tanto voluta Unità d’Italia, è l’emblema dell’atavica disomogeneità che da sempre caratterizza il popolo italiano. Il Paese è comunque da sempre diviso. Tra le Regioni del Nord e quelle del Sud, tra quartieri abbienti e quartieri indigenti: l’Unità non c’è. Le divisioni economiche e sociali si ripercuotono sulla politica, ed infine sulla cultura, rendendo ogni essere pensante prima fazioso e poi razionale. Pertanto la reazione politica alla crisi Covid ha riproposto una caratteristica secolare della politica italiana: e cioè che le divisioni regionali possono diventare, in alcune circostanze, altrettanto se non addirittura, più importanti delle divisioni partitiche. Questo, a sua volta, suggerisce che la crescente disuguaglianza tra nord e sud, invece di essere un mero incidente della storia risolvibile con qualche saggia politica, è inscritta nella struttura stessa dello stato unitario italiano. Un’Unità formale, fatta di simboli e istituzioni rispetto ad una visione condivisa dello sviluppo dell’Italia, può essere foriera di nuovi e ingenti danni ai cittadini italiani. Tuttavia la crisi del Covid-19 ha così dato nuovo slancio alle richieste settentrionali di autonomia regionale, costringendo Roma a porsi domande taglienti sul futuro. Se alle regioni settentrionali fosse data maggiore autonomia, lo stato centrale avrebbe meno risorse da ridistribuire in tutto il Paese in un momento in cui il sud ha più che mai bisogno di un intervento statale e di assistenza pubblica. Se Roma riuscirà a far fronte a queste richieste che si escludono a vicenda, è troppo presto per dirlo, ma da ciò dipende la futura rilevanza della questione meridionale e, con essa, la stabilità dell’intero Paese. La concessione di un’ampia autonomia regionale, soprattutto sul piano fiscale, infatti, rischierebbe di accentuare in maniera insostenibile il gap economico fra nord e sud, quantomeno se non accompagnata da un serio e corposo piano di rilancio a favore delle regioni meno ricche. L’autonomia delle regioni va sempre conciliata, così come previsto dalla stessa Costituzione, con i principi di Unità dello Stato, di uguaglianza sostanziale e di solidarietà. La riforma, fra l’altro, prevede anche l’attribuzione alle regioni di maggiore autonomia in svariati settori, comunque cruciali per il benessere complessivo del Paese. Tuttavia le regioni del nord Italia non devono lavorare come traino di quelle del sud, né costituirne l’ancora di salvezza. Difatti, il rilancio e la crescita del sud rappresenterebbero un’opportunità vincente per tutto il Paese, che potrebbe finalmente riscoprire la forza dell’unità e in questo senso, portare avanti un piano concreto a favore dell’intero territorio nazionale, indispensabile per consentire all’Italia un confronto equo con gli altri Paesi europei. Pertanto è spontaneo chiedersi, quale sia l’effettivo guadagno che deriverebbe da una scelta di questo tipo. Viviamo in un mondo che costringe all’interconnessione, agli scambi, ai contatti sinergici con gli altri Paesi. L’economia gira intorno alle scelte fatte da macro-potenze mondiali come gli Usa e la Cina. Davvero è possibile pensare che in un tale contesto globale singole regioni, per quanto virtuose, possano sopravvivere da sole?