Intelligenza artificiale e arte possono coesistere, ma c’è un rischio che si corre permettendo alla prima di elaborare la seconda.
Era il 1966 quando Primo Levi, stupito dai progressi tecnologici, pubblicava un racconto, a suo dire anche poco serio, in cui un poeta per professione decideva di delegare il proprio lavoro a un Versificatore elettronico. Chissà cosa penserebbe oggi lo scrittore se scoprisse che quel che lui riteneva una fantasia si è trasformato nella triste e marcia realtà.
Un algoritmo che scrive poesie. Già questo dovrebbe tramutarsi in un fantasioso racconto degli ossimori e invece ha preso forma e si è concretizzato sotto i nostri occhi.
Il fenomeno sta prendendo piede anche in Italia, trovando spazio non solo in progetti di collettivi indipendenti ma anche fra grandi e rinomati editori come Il Saggiatore.
Ad ogni modo, che si tratti di arti figurative, prosa o poesia non smette di lasciare atterriti la progressiva e sempre più disumanizzante sostituzione dell’intelligenza umana con quella artificiale.
Se sempre Primo Levi accennava a quanto salvifica possa essere l’arte, anche in un disumano e disumanizzante lager in cui per essa non c’è posto, non possiamo che rimanere interdetti dinanzi a queste operazioni.
D’altronde, Levi riportava nelle stessa pagine dell’episodio di Pikolo Jean: “La poesia aiuta l’uomo a sopportare la sua croce e a vincere la barbarie”.
Insomma, si sta togliendo all’arte la sua radice tutta umana, tutta la sua essenza viva e folgorante che caratterizza il tanto laborioso processo artistico.
Peraltro, quale ruolo assume l’uomo in questo processo non più definibile realmente artistico?
Quanto delle poesie (ma la stessa logica può applicarsi a dipinti, sculture e a tutto ciò che è arte), sarà in realtà frutto di una rielaborazione pedissequa di quelle già scritte, in passato, da altri autori? Quante volte ci imbatteremo in accostamenti di versi estrapolate da componimenti diversi e poi accostati fra di loro dall’AI?
Come si può, in questo senso, valutare l’identità artistica del poeta, se questi non esiste e se ciò che finisce per ricoprire le pagine altro non è che mera rielaborazione automatica?
Come si può, quindi, ricostruirne una poetica, se l’artista, in realtà, non c’è?
Quanto ci costerà agire a discapito dell’originalità artistica?
Perché, se è pure vero che ormai camminiamo sulle spalle dei giganti, verso i quali siamo largamente in debito, è altrettanto vero che sono l’unicità e la singolarità degli eventi che costellano il cammino esistenziale ed esperienziale dell’umano e l’irripetibilità delle sue emozioni a permettere la creazione artistica. Spogliare le manifestazioni dell’intelletto e dell’estro artistico umano di tutto ciò, le spoglia dell’arte, rendendole semplici e insulsi prodotti.
E l’uomo, l’artista, che fine fa in tutto ciò?
Assume il ruolo del co-autore poiché ha suggerito gli input alla macchina. Nulla di più che un co-autore di una macchina che egli ritiene di addestrare, senza rendersi conto di starsi facendo inesorabilmente sostituire da un mezzo che dovrebbe facilitargli il lavoro con i programmi di videoscrittura, non sostituirsi a lui.
In aggiunta, quotidianamente, migliaia di persone, all’interno delle fabbriche, premono pulsanti e danno gli input alle macchine affinché le materie prime diventino prodotti.
Dov’è, allora, la differenza? Dov’è l’arte?
Ormai non si tratta più di capire se Leopardi avesse ragione in merito alla poesia degli antichi, se i freudiani dicano il giusto quando, all’interno delle manifestazioni artistiche, scorgono il “rimosso” e il “trauma” o se abbracciare la linea dei decostruzionisti o degli strutturalisti abbia oggi ancora senso.
Siamo davvero giunti a cancellare del tutto e definitivamente la già scarsa, come lamentava giustamente Baudrillard, distanza fra l’uomo e la macchina?
Siamo davvero convinti che, in relazione a ciò che artificiale, sia giusto parlare di intelligenza? In fondo è la lingua a rivelarci il nostro approccio nei confronti del mondo. Se, allora, accostiamo il termine ‘intelligenza’ al termine ‘artificiale’, risulta evidente quale piega abbiamo scelto di dare alla società e al nostro vivere al suo interno.
Ormai siamo oltre. Oltre l’arte. Oltre l’Übermensch nietzchiano. Oltre l’umano.
Stiamo, infatti, diventando cyborg senza nemmeno averne coscienza. Non serve più, come paventavano i libri o i film di fantascienza, sostituire parte del nostro corpo con quelle di un robot, poiché l’essere umano, che ha sempre desiderato valicare i confini della propria finitudine, sta lentamente – ma nemmeno troppo lentamente – cedendo alla macchina ciò che dovrebbe essere unicamente prerogativa umana, in altre parole le sta concedendo di sostituirlo.
In quest’ottica, allora, non sembra nemmeno più così assurda la disputa fra i transumanisti di Kurzweil, gli umanisti di Fukuyama e l’uomo-prometeico di Besnier.