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Intervista alla Prof.ssa Filomena Corbo, ricercatrice e docente UniBa

La ricerca italiana gode di menti eccellenti, ma di scarsi investimenti, eppure spesso riesce ad ottenere risultati migliori degli altri Paesi. Ci occorrono ingenti risorse e una svolta culturale che permettano ai nostri ricercatori, ambitissimi in tutto il mondo, di diventare competitivi e risolutivi sul campo scientifico anche nei confini nazionali. Tra questi, proprio la Puglia, in particolare l’Università Aldo Moro di Bari, ha l’onore di avere non solo nel corpo docenti e nei progetti di ricerca ma anche negli organi di governance, la Prof.ssa Filomena Corbo, uno dei punti di riferimento italiani ed internazionali del settore. Nel corso dell’intervista potrete dedurre lo spessore della sua carriera accademica e l’instancabile dedizione verso la Ricerca.

 

Di cosa si occupa attualmente?

Sono docente di Chimica degli Alimenti presso il Dipartimento di Farmacia-Scienze del Farmaco all’Università degli Studi di Bari. nel laboratorio di Chimica e tecnologie nutraceutico-alimentari, popolato al momento da 3 ricercatori di tipo A, con competenze complementari (biotecnologico, chimico-farmaceutico e analitico) con i quali – insieme a una collega del dipartimento Interdisciplinare di Medicina, la Prof.ssa Maria Lisa Clodoveo – svolgiamo un’attività direzionata in primis al settore della Nutraceutica. Ad oggi il focus del mio lavoro, dopo vent’anni di attività scientifica in Chimica farmaceutica, è appunto molto orientato verso lo studio degli alimenti funzionali, che possono incidere sul benessere delle persone coadiuvando il farmaco e quindi riducendo l’insorgenza della malattia o i suoi effetti collaterali. Si tratta di alimenti che al loro interno hanno delle molecole bioattive che intervengono su malattie croniche, come l’obesità e il diabete. I nutraceutici sono i componenti che si trovano in tali alimenti, che poi vengono estratti e trasformati in formulazioni tipo integratori. In particolare la patologia che attualmente stiamo studiando e per la quale abbiamo proposto più progetti è l’obesità infantile, analizzata dal punto di vista dell’effetto che i nutraceutici degli alimenti funzionali possono avere sulla sua prevenzione perché non si tratta di farmaci ma di presidi utili a prevenire la malattia o comunque ad alleviarne la sintomatologia. In questo momento stiamo svolgendo un trial clinico su bambini obesi al di sotto dei 5 anni, utilizzando l’olio extravergine di oliva della nostra Regione per verificare che relazione c’è tra la composizione dell’olio e la patologia. Siamo molto entusiasti perché, essendo il primo trial svolto su un target così basso, sta riscuotendo grande successo nei convegni in cui lo stiamo presentando.

Nel campo della Chimica Farmaceutica, che differenze ha potuto notare col passare del tempo e del progresso scientifico?

In questo ambito mi sono sempre occupata della sintesi di molecole nuove potenziali candidati farmaci per le   miotonie (malattie del muscolo) e anche come antibatterici. Quello che ho potuto notare è che la chimica farmaceutica si è evoluta spostandosi dalla ricerca di piccole molecole di sintesi, a una farmaceutica invece più di tipo biologico. Le industrie farmaceutiche piuttosto che cercare nuove molecole che possano agire come farmaci, stanno lavorando moltissimo sulle terapie geniche, le tecniche RNA, le terapie vaccinali ecc. Tutti gli avanzamenti tecnologici si stanno muovendo in questa direzione: i farmaci del futuro saranno, infatti, soprattutto farmaci legati alla terapia genica e farmaci biotecnologici (es. anticorpi monoclonali). Quindi la farmaceutica classica, che si incentra sull’individuazione del target e del recettore e poi sulla creazione di una molecola che con esso interagisce, è ormai in declino e sta cambiando volto: adesso si parla di “farmaci multipotenti”, e di riposizionamento di farmaci ossia farmaci già in commercio che vengono presentano azioni farmacologiche off label

“Cibo in Salute” è il nuovo centro interdipartimentale UniBa di cui lei è Coordinatrice. Come nasce e quale la finalità?

Nel 2021 ho dato vita al centro “Cibo in Salute: nutraceutica, nutrigenomica, microbiota intestinale, agricoltura e benessere sociale”, che è un centro nato dall’esigenza di mettere in rete tutti i ricercatori di UniBa che con varie expertise lavorano nel settore salutistico. Vi prendono parte 8 dipartimenti (area economica, biologica, medica, farmaceutica, agraria, comunicazione) e conta circa 130 docenti: abbiamo creato degli accordi di collaborazione con alcuni Comuni pugliesi e abbiamo presentato e vinto progetti sia regionali che nazionali allo scopo di far confluire in un’unica struttura tante eccellenti menti e diventare un punto di riferimento per tutta la Regione.

Qual è il progetto a cui sta lavorando in questo momento?

Come gruppo di ricerca con la Prof.ssa Clodoveo stiamo cercando di sensibilizzare i policy maker nei confronti di una nuova etichettatura per gli alimenti che possa contrastare l’avvento del Nutriscore ossia l’etichettatura a semaforo che l’Europa vuole rendere obbligatoria in tutti gli Stati membri per distinguere gli alimenti che fanno bene da quelli che fanno male (già presente in Belgio e in Francia). Il Nutriscore è un problema per i prodotti italiani, in quanto vengono classificati dannosi per la salute; la decisione di adottare il Nutriscore è stata rinviata di un anno nel tentativo di cercare intanto un’alternativa da proporre a livello europeo. Questa alternativa l’abbiamo creata noi e si chiama MED INDEX: è un’etichettatura positiva che individua tutti i prodotti alimentari che fanno parte del paniere della dieta mediterranea, dieta ritenuta salutare al 100%; quindi, piuttosto che bocciare alcuni prodotti, proponiamo di far emergere produzione quelli che sono già riconosciuti salutistici. Ci stiamo lavorando da più di due anni in maniera intensa, promuovendola anche su tavoli istituzionali come Ministeri e Commissione Europea. Negli ultimi anni, inoltre, insieme alla Prof.ssa Clodoveo e al Prof. Riccardo Amirante, ordinario al Politecnico di Bari, abbiamo immesso sul mercato una nuova tecnologia per la produzione dell’olio d’oliva – ossia una tecnologia ad ultrasuoni – grazie al supporto di un progetto europeo: con la collaborazione di diversi Stati membri abbiamo proposto ad aziende meccaniche che producono macchine per i frantoi oleari questo nuovo prodotto tecnologico frutto di dieci anni di lavoro e ricerca.

La Puglia da questo punto di vista è recettiva?

Le interazioni con le Istituzioni, soprattutto con la Regione, si sono intensificate molto negli ultimi tempi. Basti pensare che l’idea di creare il centro interdipartimentale “Cibo in Salute” è sorta proprio dall’interlocuzione con alcuni Assessorati, i quali hanno manifestato la necessità di avere un unico interlocutore istituzionale che facilitasse e migliorasse l’individuazione degli ambiti e dei soggetti su cui allocare le risorse Il centro, infatti, è riconosciuto a livello regionale come hub di innovazione e ho riscontrato un tessuto giovanile nella nostra Regione molto frizzante che sta cercando di ottenere finanziamenti per avviare start-up e/o spin-off.

Parallelamente alla carriera di ricercatrice, ricopre ruoli di spessore nella Governance universitaria. Quali sono i suoi compiti e quale bilancio può trarne?

Per quanto riguarda l’Università di Bari, sono da qualche anno membro del Presidio di Qualità di Ateneo, un organo universitario volto al monitoraggio continuo della qualità dei processi di didattica, ricerca e terza missione. Sono, inoltre, un esperto ANVUR – Agenzia Nazionale per la Valutazione delle Università Italiane e mi occupo dell’accreditamento di nuovi corsi di Laurea e della partecipazione alla formazione per poter poi operare nella valutazione delle diverse sedi universitarie d’Italia. È questo un incarico sicuramente gravoso ma molto prestigioso. La maggior parte dei colleghi si interessa poco alla governance delle università perché la considerano una perdita di tempo, io, invece, ritengo che uno dei compiti dei docenti sia conoscere l’Università anche in questi aspetti per poterla gestire. Il mio percorso in tale ambito è iniziato occupandomi di Project Management mediante corsi e master; ho poi trascorso un periodo presso l’Ufficio della Regione Puglia a Bruxelles al fine di comprendere le logiche della lobby europea e al mio ritorno sono stata delegata all’Internazionalizzazione dall’allora Rettore dell’Università, il Prof. Antonio Uricchio, incarico che mi ha permesso di interagire con altri Ministeri come quello degli Esteri. Sono stata anche membro del GEV (Gruppo degli esperti valutatori) per l’Area Chimica e Consigliere CUN (Consiglio Universitario Nazionale) per l’Area Scienze Chimiche. Tutti questi incarichi mi hanno permesso di sviluppare delle competenze manageriali importanti che considero fondamentali per chi svolga ruoli apicali all’interno dell’Ateneo.

Dalle sue esperienze all’estero a quali considerazioni è giunta? Cosa manca all’Italia?

Per quelle che sono le mie esperienze – una più progettuale a Bruxelles, di cui le parlavo prima, e una breve presso l’Università di Zagabria – e i feedback che ricevo dai miei dottorandi all’estero, quello che a noi manca è una maggiore organizzazione nel senso che al docente in Italia si chiede di occuparsi quotidianamente di aspetti amministrativi e progettuali, quando invece i suoi compiti dovrebbero essere solo legati a produrre una buona ricerca, somministrare didattica e svolgere la Terza Missione. I professori esteri, al contrario, hanno risorse amministrative in termini di personale dedicato a svolgere mansioni più tecniche-manageriali e orari più flessibili; in questo modo riescono a dedicarsi di più alla ricerca e ai loro allievi che si sentono meglio seguiti e attenzionati. Inoltre le Università all’estero godono di tantissimi finanziamenti, non soltanto quelli che si procurano mediante i progetti di ricerca ma anche quelli ingenti derivanti dagli investimenti statali. Questo fa sì che siano dotate di attrezzature sofisticate che gli studenti possono tranquillamente utilizzare, mettendo in pratica la loro conoscenza teorica. Noi, invece, facciamo fatica a permetterlo perché comprare e manutenere delle strumentazioni di altissimo livello è molto complicato e richiede personale specializzato che li gestisca. Tutto ciò è legato al fatto che l’Italia è uno degli ultimi Paesi europei per finanziamenti statali destinati alla Ricerca ed è il limite più grande che gli studenti avvertono quando vanno fuori. C’è però da dire che, nonostante i pochi fondi, la ricerca italiana è una delle migliori in Europa grazie al duro lavoro e ai grandi sacrifici delle nostre eccellenti menti.

https://persone.ict.uniba.it/rubrica/filomenafaustinarina.corbo

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