di Fil De Fazio
Oggi si chiama Taranto Football Club 1927. Ma ha avuto tanti nomi: Associazione Sportiva Taranto, Unione Sportiva Taranto, Associazione Sportiva Taranto, Unione Sportiva Arsenaltaranto, Taranto Football Club S.p.A., Taranto calcio 1906, Taranto Calcio S.r.l., Taranto Sport S.r.l., Associazione Sportiva Taranto Calcio, Taranto Football Club 1927 S.p.A., Società Sportiva Dilettantististica Taranto Football Club 1927. Tanti nomi per una società dalla storia maledettamente travagliata, tra fusioni, scioglimenti, fallimenti, liquidazioni, mancate iscrizioni. Impossibile stare dietro tutte quelle rivoluzioni, quindi per i tifosi della città ionica la loro squadra è, semplicemente, il Taranto. “U’ Tarde”, per dirla alla maniera tarantina.
La maglia invece sempre la stessa, a righe verticali rosse e blu. Calzoncini a seconda dell’epoca, neri ai suoi albori, bianchi durante i suoi anni migliori, blu in quelli recenti perché le regole del calcio moderno non permettono troppi colori sulla stessa tenuta. Negli anni è cambiato poco anche il suo stemma, un delfino su campo rossoblù, rivisto e stilizzato a seconda dei gusti dell’epoca.
Ha vinto poco il Taranto nella sua quasi centenaria storia. I pochi trofei vinti non sono neanche di grande prestigio. Un Campionato di serie C2 (2001); due Campionati di serie C (1936-37 e 1953-54); uno di Serie C nel 1990, un Campionato Nazionale Dilettanti nel 1995, un Campionato di serie D nel 2021.
Ma in questa lunga storia fatta di tante delusioni e troppo poche soddisfazioni, esiste una peculiarità che è tutta sua, che emerge e merita di essere riferita e raccontata. E’ qualcosa che si divide tra record e maledizione, come uno stemma che si staglia nitido e pulito sulle maglie rossoblù ma allo stesso tempo è una macchia che ne lorda i colori.
Il record: il Taranto ha partecipato a trentuno campionati di serie B senza essere mai stata promossa in serie A. Non siete impressionati? Allora mi tocca aggiungere, sperando di non rigirare più di tanto il coltello nella piaga che il Taranto è però l’UNICA ad avere quel numero di presenze senza essere mai riuscita ad ottenere la promozione nella massima serie.
Un record di cui è impossibile vantarsi, si converrà. Ma neanche dolersene, perché trentuno anni nella cadetteria sono comunque un bel numero.
Quasi sempre le sue annate si sono alternate tra salvezze all’ultimo respiro oppure comode, più raramente conseguendo dei tranquilli piazzamenti intorno al centro classifica.
Il miglior piazzamento risale al campionato 1973/74 quando si arrampicò fino al quinto posto senza però mai insidiare veramente le prime tre posizioni valide alla promozione in serie A.
Ma alla vigilia dell’annata 1977/78 le speranze e le aspettative erano altissime. Il nuovo presidente Giovanni Fico era stato molto attivo durante il calciomercato estivo, portando sotto il ponte girevole l’esperto Franco Panizza e l’affidabile portiere Zelico Petrovic, Jugoslavo naturalizzato italiano, con Sergio Buso (“Buster Keaton” per i compagni di squadra) a fargli da mentore. In avanti c’era poco da aggiustare, visto che era già ben attrezzata con Franco Selvaggi che quattro anni più tardi si sarebbe fregiato del titolo di campione del mondo, e il fortissimo centravanti Erasmo Iacovone, ingaggiato nel mercato novembrino della stagione precedente. Soprattutto quest’ultimo si era rivelato quello che oggi sarebbe definito un “crack”, con otto reti all’attivo già alla sua prima stagione. La squadra era stata affidata al tecnico Tom Rosati, poco conosciuto ai più e con tanti anni di gavetta in serie C. Allenatore di grande professionalità e umanità, ma anche dal carattere spigoloso e un po’ burbero, lo si ricorda per la promozione in serie A del suo Palermo nella stagione 84-85, quando erano già presenti in lui i sintomi della malattia che lo avrebbe ucciso a soli cinquantasei anni, poche settimane dopo quel successo.
Partì in sordina la stagione di quel Taranto, vincendo alla prima giornata con la Pistoiese ma perdendo già alla seconda giornata con la Cremonese. Stentò poi con Rimini e Catanzaro pareggiando, ma dalla quinta giornata improvvisamente cambiò marcia. Inanellò nove risultati utili consecutivi, compresa la vittoria nel sentitissimo derby con il Bari, trascinato dai gol di Erasmo Iacovone. Compatto e ben assestato l’attaccante molisano malgrado la sua altezza era fortissimo nel gioco aereo. Era dotato di una elevazione fuori dal comune e da un tempismo che compensava un’altezza non eccelsa. La sua esplosività si rivelava utile anche alla ricerca degli spazi ove lanciarsi a chiamare il passaggio filtrante. Un tiro secco e preciso lo rendeva letale. Si completava con le qualità del suo compagno di reparto, Franco Selvaggi. Quest’ultimo era veloce, agile e bravo a chiudere i triangoli in velocità: un dualismo perfetto.
Date le premesse, le impressioni, ma soprattutto la classifica, sembrava che potesse essere davvero l’anno buono, quel 1978. L’anno che con buone probabilità avrebbe finalmente visto iscritto “u’ Tarde” alla massima serie.
Alla 15esima giornata si palesarono i segni di un certo calo di forma con la sconfitta subita dalla pur fortissima Ternana, in casa, per 1 a 2. Tuttavia nulla poteva dirsi compromesso: alla vigilia della diciottesima giornata il Taranto era saldamente al secondo posto. La classifica recitava Ascoli a 27 punti, il Taranto a 19, Ternana, Sampdoria, Lecce e Avellino a 17.
La sedicesima giornata, quart’ultima del girone d’andata, prevedeva tra gli incontri di cartello, una sola gara: la prima contro la seconda in classifica. Taranto-Ascoli si sarebbe giocato allo stadio Salinella di Taranto ad una data insolita, l’ultimo dell’anno 1977.
Già due ore prima delle 15 sulle gradinate in tubi d’acciaio Innocenti, la tensione era alle stelle. Sotto lo scalpicciare ritmico dei ventitremila ipereccitati tifosi tarantini la struttura tremava, cigolava e ondeggiava sinistramente. Pare fosse un fenomeno normale, nulla di cui preoccuparsi. A quei tempi le norme di sicurezza degli impianti sportivi erano meno di un’idea, la tragedia dell’Heysel era lontana da venire.
Un tempo anomalo incombeva sullo stadio, lontano dai climi temperati dolci e benevoli delle città ioniche che insistono anche in inverno. Il cielo antracite pareva schiacciare la già bassa struttura del Salinella. Un teso, gelido Grecale sferzava l’intrico di tubi sotto le gambe degli spettatori, gelandole.
Dai diffusori dello stadio partì il suono dei nomi delle formazioni ufficiali. Con una buona dose di fantasia si potè decodificare quei suoni disarticolati e gracchianti:
Si apprese così che il Taranto si schierava con Petrovic; Giovannone, Cimenti, Dradi a comporre la linea difensiva; Panizza, Nardello, Gori, Fanti il quartetto di centrocampo; Iacovone punta; Selvaggi, Caputi chiamati ad agire sulle fasce.
L’Ascoli si dispose con un fantasioso 4-3-2-1, i cui interpreti erano Marconcini, Anzivino, Perico, Scorsa, Legnaro; Pasinato, Roccotelli, Moro; Ambu, Bellotto, Quadri.
Una volta guadagnato il campo, i giocatori faticarono a capacitarsi dell’aria gelida che si insinuava indisturbata tra le maglie delle casacche in lanetta. L’inverno era arrivato di colpo, come un ospite inatteso e sgradito. In maglia bianconera, data la vicinanza degli spalti al campo di gioco, si potevano distinguere nitidamente persino i visi di quelli che di lì a poco si sarebbero dati battaglia. Così potevi riconoscere, tra gli ascolani, Giovanni Roccotelli impegnato a sfregarsi le mani, nel vano tentativo di scaldarsele. Saltellava il suo omonimo Quadri prima su un piede poi sull’altro, con lo stesso intento. Claudio Ambu scalpitava già, provando scatti da fermo, sicuro che più avanti gli sarebbero serviti.
Quadri, in bianconero, si soffiava tra le mani intirizzite emettendo spesse volute di vapore acqueo che immediatamente si disperdevano nel vento. Dall’altra parte del campo, dove attendevano il fischio d’inizio i ragazzi del Taranto, potevi individuare, nella sua sgargiante maglia verde Zelico Petrovic che, con i guanti ancora non indossati, impartiva gli ultimi avvisi ai pochi compagni che gli prestavano attenzione. Graziano Gori si accomodava la maglia nell’elastico dei pantaloncini bianchi, scuotendo i boccoli, chiaro segno di impazienza. Federico Caputi, Rodolfo Cimenti e Stefano Dradi lanciavano sguardi sullo schieramento opposto, nell’intento di individuare il loro diretto marcatore, o l’uomo che gli sarebbe toccato controllare. Quel guardare, scrutare, valutare a braccio quegli avversari che sembravano così sicuri del fatto loro, era un esercizio ozioso, lo sapevano benissimo. Perché poi a palla in movimento, tutte quelle elucubrazioni svaniscono e incombe l’istinto dell’atleta, che fa, e non pensa. Ma intanto, si possono fermare quei pensieri? No? Allora lasciali andare: “sarò più veloce di lui?”; “salterò più in alto?”; “riuscirò a dribblarlo? Domande che avrebbero avuto risposta molto presto, perché intanto l’arbitro Longhi della sezione di Roma stava mostrando la monetina ai capitani Giorgio Nardello e Adelio Moro.
Nardello, capitano di lungo corso per dirla con le frasi fatte. Ma mai fu più vero: aveva ormai girato la boa dei trentadue anni e in capo a due si sarebbe ritirato. Di mestiere faceva il libero, un ruolo naif che oggi non esiste più, riservato a quei calciatori che avevano esaurito i polmoni. Cosa faceva un “libero”? Dove individuava una falla, interveniva a turarla, tutto qui. Aveva speso la sua vita da agonista su campacci di serie B e C. Affidabile, essenziale e dai metodi spicci, con nessuna storia alle spalle che meriti di essere raccontata, queste le sue caratteristiche salienti.
Adelio Moro, capitano e regista dall’andatura compassata ma maledettamente elegante e dotato di un calcio forte e preciso. Era capace di inventare traiettorie di passaggio illeggibili, con il quale soleva bucare e tagliare a fette qualsiasi schieramento difensivo gli si parasse dinanzi. Ventisei anni e già con già un passato di tutto rispetto avendo giocato per un triennio nell’Inter di Giovanni Invernizzi, affiancando gente come Mazzola, Facchetti, Corso, Boninsegna.
Evase le pratiche di rito legate al calcio d’inizio, era stato proprio capitan Nardello a sbloccare l’affascinamento collettivo dei suoi uomini, chiamandoli intorno a sè. Quel che disse loro rimane nell’ambito delle congetture o nelle testimonianze di chi c’era, ammesso che ricordi. Probabilmente li redarguì in maniera diretta e brusca, da buon veneto, dicendogli qualcosa del tipo: “Ragazzi, ma avete visto che tifo c’è? Vi avviso, questa gente non va delusa, chi si nasconde lo faccio uscire dal campo a suon di calci nel culo: non voglio dividere il campo con dei cagasotto. Loro sono forti, ma sono in undici come noi. Vinceranno? Buon per loro, ma non gli renderemo le cose facili. In culo alla balena, in culo all’Ascoli, in culo a tutti”.
Partì forte, il Taranto. Giocando di prima, cercando le ali, girando intorno al centrocampo tutto fosforo dell’Ascoli. Gli ospiti parvero sorpresi da tanta vitalità, dalla puntigliosa applicazione tattica, dalla reattività nella lotta, dal tracotante vigore fisico dei ragazzi in Rossoblù. Non ne furono travolti, questo no. Ma intimoriti, quello si.
Al minuto 16 i padroni di casa presero d’infilata Moro e soci con una nuova iniziativa palla a terra. Panizza sradicò la palla dai piedi di Quadri e subito smistò su Cimenti defilato sulla fascia destra. Questi non aspettò un secondo e senza fermare la palla, la lanciò lunga sulla traiettoria di corsa dell’accorrente Iacovone, in posizione d’ala destra. Questi, prima lasciò sfilare il pallone ra le gambe disorientando Ambu, poi allungò la falcata e guadagnò il fondo, con tutto l’Ascoli a cercare di occupare l’area quanto più possibile. La palla che il nove tarantino indirizzò al centro dell’aria non trovò compagni ma l’impaccio di Perico, che preoccupato di anticipare Selvaggi e Caputi che si erano fiondati in area, svirgolò malamente la palla indirizzandola in rete senza che Marconcini potesse abbozzare un intervento. Il Salinella sembrò cedere di schianto sotto il peso di quei ventitremila che saltavano come forsennati. Un tripudio di bandiere e striscioni rossoblù, incendiò gli assi in legno delle gradinate. Fu tutto, improvviso, un abbracciarsi, baciarsi, strusciarsi. Quell’orgia di esaltazione parossistica, dilagò tracimando tra gli spalti come un unico corpo. Come una massa liquida che si muova ondeggiando e sussultando, che si rinsaldi e poi si sciolga, che si mescoli e quindi si scinda, sotto lo stimolo di una eccitazione occulta.
L’Ascoli ci mise un po’ a riprendersi, ma come detto, era una gran bella squadra. E come tale, sapeva bene come reagire davanti alla tempesta. Semplicemente cominciò a giocare secondo i suoi standard. E lì cominciarono i guai per il Taranto.
Nardello, che era stato il propiziatore del gol del vantaggio, battè male un calcio di punizione sulla indirizzandola proprio sul petto di Quadri. Il centravanti ascolano lanciò Ambu sulla sinistra, mandandolo in solitudine davanti a Petrovic. Il portiere ebbe il tempo giusto di staccarsi dalla porta in un tentativo di uscita inutile, perché l’ala aveva già tirato in porta e segnato il gol del pareggio.
Nel secondo tempo in campo ci fu solo l’Ascoli che non fece vedere più palla ai suoi avversari per lunghi e interminabili minuti. Al 53esimo minuto passò in vantaggio con un altro gol di Ambu, bravo a ribadire in rete una palla respinta male dalla difesa tarantina, in pieno stato confusionale. Il numero undici ascolano si ritrovò in perfetta solitudine giusto sul dischetto del rigore e per Buso non ci fu niente da fare. Petrovic senza colpe su questo gol: era rimasto negli spogliatoi dopo l’intervallo perché in non perfette condizioni fisiche. il suo posto l’aveva preso l’esperto numero 12 Sergio Buso. Il portiere di riserva del Taranto, una volta ritiratosi dal calcio potrà raccontare ai suoi nipoti di essere stato l’unico portiere italiano a parare un rigore a Gigi Riva durante un Cagliari-Bologna del 1973.
Era un gol largamente annunciato, quello dell’uno a due. L’Ascoli salì in cattedra cogliendo addirittura la terza rete nel finale, all’83esimo, senza aver neanche assaggiato un abbozzo di forcing tarantino. Da un calcio di punizione dal limite, Greco appoggiò a Pasinato che con una gran botta fece fuori ancora Buso, anche stavolta fermo a guardare la palla entrare in rete. Fu l’epilogo di una gara quasi mai in discussione. Un uno a tre che lasciava poco spazio alle recriminazioni.
Fu una vera e propria lezione di calcio quella che l’Ascoli di Renna impartì al malcapitato Taranto, spadroneggiando la partita in lungo e largo per almeno 75 minuti.
Il risultato, per quanto pesante, non avrebbe dovuto nuocere più di tanto al morale degli sconfitti, soprattutto perché nel frattempo le inseguitrici Avellino e Lecce avevano perso. In classifica si erano quindi visti solo avvicinare da Sampdoria e Ternana. Il primo posto si poteva realisticamente considerare ormai irraggiungibile, ma i posti validi per ottenere la promozione erano ancora due.
Con più di mezzo campionato da disputare, le chances da giocarsi erano ancora praticamente intatte.
Purtroppo però, quella che sembrava una semplice flessione si rivelò una vera e propria crisi di idee, gioco e risultati. Era ormai chiaro che nei meccanismi del Taranto qualcosa si era inceppato. Dopo la debacle Ascoli, la domenica successiva perse nettamente contro la Sampdoria per 4 a zero. A seguire, pareggiò a reti bianche nel derby col Lecce per poi perdere di nuovo in casa col Monza, di nuovo per 3 a 1.
Fu quella l’ultima partita del girone d’andata, con il quale fu superata in classifica da Avellino, Brescia, Catanzaro, Lecce, Palermo, Sampdoria e Ternana. Nel giro di tre settimane il Taranto era scivolato dal secondo posto al sesto.
Nello scoramento generale di una situazione complicata ma non ancora compromessa, fu un evento tragico a mettere definitivamente la parola fine alle ambizioni tarantine. All’indomani della trasferta in quel di Cremona (conclusasi con un deludente 0-0) il bomber Iacovone perse la vita in un incidente stradale nell’agro di Taranto. Poco prima dell’una di notte del 6 febbraio 1978, la sua automobile, una Citroën Dyane, fu violentemente centrata da un’Alfa 2000 GT il cui guidatore era un pregiudicato che procedeva a fari spenti perché inseguito dalla polizia. Nell’impatto, Iacovone fu sbalzato fuori dal parabrezza morendo sul colpo. Non aveva compiuto ancora 26 anni. Sposato da sette mesi, lasciò sua moglie incinta, in attesa di una figlia. Nelle poche foto del fatale incidente pubblicate sui giornali, si faticava a riconoscere la fiancata dell’utilitaria su cui viaggiava l’attaccante, talmente le lamiere erano contorte. Subito dietro, in secondo piano si scorgeva la coda dell’Alfa ribaltata. Venne successivamente installata una lapide a ricordo del calciatore sul luogo dell’incidente. Solo due giorni dopo, lo stadio “Salinella” venne ribattezzato stadio “Erasmo Iacovone”
Erasmo Iacovone aveva segnato il suo nono e, purtroppo ultimo gol, una settimana prima alla Pistoiese, a Pistoia. Aveva firmato il gol dell’uno a uno definitivo.
La tragedia impattò in maniera decisiva su tutta la squadra, che si rivelò incapace di reagire al tremendo colpo infertole dalla sorte. Delle diciassette partite rimanenti il Taranto ne vinse solo quattro. Pareggiò otto volte, cinque volte fu sconfitta. Dieci i turni consecutivi senza vittorie. La stagione si chiuse con un malinconico ottavo posto, ma le speranze di promozione erano state accantonate almeno tre mesi prima.
La classifica di Serie B alla trentottesima e ultima giornata premiava con la promozione in serie A, l’Ascoli, il Catanzaro e l’Avellino.
Paradossalmente, la stagione 1977-78 pur con tutti i suoi rimpianti, le cocenti delusioni e la tragedia di Iacovone, rappresenta comunque il punto più alto della storia dell’attuale Taranto Football Club 1927. Gli anni successivi furono complicati e contraddittori. Tre anni dopo, al termine della stagione 1980/81 subì una penalizzazione di cinque punti per illecito sportivo non riuscendo poi ad evitare la retrocessione in serie C1. Nel 1985 arrivò lo scioglimento della società A.S. Taranto, e dopo solo otto anni, il fallimento. Ripartì dal Campionato Nazionale Dilettanti, diventando Arsenaltaranto.
Proseguirono quegli anni bui tra cambi di denominazioni e di proprietari. Nel 2012, il club che all’epoca si chiamava A.S. Taranto, non riuscì a presentare garanzie per l’iscrizione al campionato di Lega Pro di Prima Divisione. Ripartì, ancora una volta dal basso, dalla serie D. Vivacchiò in linea di galleggiamento fino al 2021, quando finalmente riapprodò alla serie C dopo un’attesa di ben dieci anni.
Oggi il Taranto FC 1927 disputa il campionato di Serie C, Girone C.. Mentre scrivo veleggia in centro classifica. Non è un male perché ad oggi l’obbiettivo del club è – realisticamente – una comoda salvezza. Ci si deve accontentare, il futuro non è esattamente florido e, dati i precedenti, la sopravvivenza si può già considerare un appetibile traguardo.
L’Ascoli del 1977/78 di cui ho sommariamente raccontato, all’epoca dello scontro diretto col Taranto, guardava tutte le altre concorrenti dall’alto dei suoi otto punti di distacco quando non si era neanche a metà campionato, Era uno squadrone sovradimensionato per il campionato cadetto, condotto dal “mister” Antonio Renna, leccese, che poi avrebbe stravinto matematicamente con due mesi di anticipo e con diciassette punti più della seconda classificata, il Catanzaro. I ducali quella stagione batterono ogni record di punti: 61 se si considerano i due punti a vittoria, 87 se con i tre punti. Era una squadra solida in difesa, tecnica sulla linea di centrocampo, spietata in attacco. Giocava in velocità e in verticale appoggiandosi ai due “gregari” Pasinato e Bellotto che poi distribuivano sui cursori Roccotelli e Ambu. Gran dribblatore il primo, scattista inesauribile il secondo. Elegante, con una visione di gioco panoramica anche se non mobilissimo, Moro si muoveva subito dietro la punta Quadri, da regista ma anche da incursore. Più tardi avrebbero fatto una discreta carriera in serie A i giocatori Claudio Ambu (Inter e Lazio), Giuseppe Greco (Lazio, Torino e Bologna) e Giancarlo Pasinato (Inter e Milan) a conferma della eccelsa qualità di quell’Ascoli Calcio 1898, stagione 1977-1978.