Nel vasto e controverso mondo del “fact checking“ (trad. lett: “controllo dei fatti“) l’etichettatura di vero o falso su una notizia (un potere arbitrario e, per odierna rilevanza, senza precedenti) viene affidato a una ristretta cerchia di giornalisti. Una grande responsabilità quella di fare una valutazione che, se risultasse errata (come molte volte accade), può condurre all’oscuramento – o comunque alla scarsa diffusione – dell’informazione stessa.
Eppure i nuovi “giudici della verità“, spesso collaboratori di colossi del web come Facebook e YouTube, sono da tempo incaricati di filtrare il fiume della conoscenza su alcune piattaforme, ivi decidendo cosa potrà raggiungerà il lettore e cosa no. Ma questo ruolo critico, già molto discutibile di per sé, risultando un ossimoro in un qualsiasi sistema democratico, pare adombrarsi ancor più quando i “fact checker” sono coinvolti in potenziali conflittualità di interesse.
Chi sono i “fact checker” del Bel Paese?
Se volessimo esaminare i portafogli che alimentano i network internazionali di “fact checking“ e che sembrano relazionarsi con la multinazionale farmaceutica Pfizer e con le fondazioni Open Society (di G. Soros) e Bill & Melinda Gates, non manca certo il materiale per farlo. Tuttavia è la situazione italiana a diventare sempre più interessante di questi tempi, un contesto, cioè, dove il “controllo dei fatti” sarebbe gestito principalmente da tre grossi portali, di cui uno, inoltre, mantiene ancora uno stretto rapporto collaborativo con il social di M. Zuckerberg, che l’ha scelto per valutare la credibilità delle notizie in rete.
Ma chi sono, parlando in generale, questi “supervisori” e da dove spuntano fuori? Cominciamo col dire che, risalendo alle origini di uno di essi, sembra emergere una storia abbastanza intrigante: nascita abbastanza recente (2018) da un’iniziativa editoriale di un noto giornalista, che si propone di fondare il progetto. Ma, unitamente al direttore di grande esperienza, pare che si celino anche altre figure chiave per la formazione e la crescita di questo nuovo strumento di “filtraggio mediatico“.
In sostanza verrebbe coinvolto anche uno studio legale internazionale con sede oltreoceano, un gigante nell’ambito degli arbitrati e delle acquisizioni finanziarie, nonché delle assicurazioni (sembra che, per ricavi, sia addirittura tra le prime dieci società di consulenze giuridiche in tutti gli Stati Uniti d’America). Che avrebbe un rappresentante a Milano (il quale sembra che inoltre scriva anche per il giornale), da quanto si evincerebbe in un tweet del 2018 che celebrava la gioia dopo alcuni “passaggi chiave” per la fondazione della testata. Pare che il direttore responsabile del media, tempo fa, avesse dichiarato che questo colosso legale a stelle e strisce fosse stato molto utile al proprio nuovo disegno editoriale, più precisamente nel concludere alcune pratiche burocratiche, tra cui la registrazione dello stesso progetto – presso il tribunale – e dei relativi contratti giornalistici.
Il doppio filo medico-politico con Washington
Ma sembra che ci sia anche dell’altro: si dice che sia stata la grossa società di consulenze a procurare la sede per l’editore del giornale: un’altro gruppo che sarebbe finito nello stesso edificio degli uffici italici del gigante legale e di cui il rappresentante-articolista risulterebbe essere socio, detenendo l’1% delle quote azionarie.
Spulciando un po’ il passato di questo colosso del “legal and insurance branch“, poi, emergerebbero collaborazioni di lunga data con il Partito Democratico americano e con Pfizer. Secondo il sito americano indipendente di contabilità elettorale Open Secrets, infatti, questo consorzio si sarebbe classificato tra i primi 15 donatori più rilevanti durante la campagna presidenziale di Barak Obama del 2012, con elargizioni che, seppur avessero superato i 2 milioni di dollari, sarebbero rimaste comunque grossomodo in linea con quelle investite in politica sin dagli anni ’90).
Sempre il medesimo colosso d’oltreoceano, quindi, avrebbe offerto una serie di servizi alla plurinazionale del settore farmaceutico Pfizer: da una consulenza per un investimento in Grey Wolf Therapeutics (una comunità biotecnologica che ha lavorato a lungo sulla creazione mirata di neoantigeni tumorali) ad una collaborazione a tre per aprire una clinica legale “speciale” (in risposta alla crisi umanitaria in Afghanistan); e dalla mediazione per incassare 180 milioni di dollari australiani da un’azienda che fornisce soluzioni diagnostiche (e telemedicina su app direttamente ai consumatori e agli operatori sanitari) all’aiuto forense in un contenzioso contro una dipendente di un gruppo di ricerca che avrebbe denunciato presunte falsificazioni nei trial clinici dei “vaccini“ anti-Co.Vi.d..
Nessuna irregolarità e nessuno scandalo, dunque, nel sapere che un team di puntuali conoscitori della legge assista una multinazionale del farmaco e partecipi alla creazione di un giornale. Anche se, nel secondo caso, probabilmente un minimo di inopportunità ci sarebbe: ci si chiede, ad esempio, cosa accadrebbe se un media, che detiene la facoltà di determinare la veridicità delle notizie (e non si sa perché, senza nemmeno un contraddittorio bilanciamento poi), dovesse essere chiamato a verificare su fatti o nomi o dati che potrebbero coinvolgere, ad esempio, i prodotti di Big Pharma, se con lo stesso soggetto il “professionista dell’Informazione” dovesse anche avere anche affari o questioni in comune? La trasparenza e l’obiettività del “fact checking“, in questa luce, non sembrerebbero opacizzate dall’ombra del possibile conflitto di interessi?
Fonti online:
ByoBlu (testata giornalistica ed emittente televisiva nazionale; articolo di Michele Crudelini del 27 ottobre 2023), archivio di novembre 2022 dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM), Agendadigitale.eu, Giovani e Media, Wikipedia, OpenSecrets, sito di Grey Wolf Therapeutics, Il Fatto Quotidiano;
Canali YouTube: Coscienzeinrete, The BMJ.
Antonio Quarta
Redazione Corriere di Puglia e Lucania