I suoi dipendenti hanno una grande possibilità di ricollocamento tramite le bonifiche e la reale conversione produttiva del territorio ionico, investendo sulle rinnovabili (i piani e i progetti ci sono) lasciandosi alle spalle (tutti, insieme, operai e cittadini!) il cappio secolare del siderurgico inquinante.
Sabato scorso ne abbiamo parlato durante un dibattito svolto nel circolo fotografico Il Castello, a Taranto. Titolo dell’evento: “Decarbonizzazione? L’esempio svedese… e la realtà di Taranto”. È stato confronto serrato, aperto, franco.
Nel nord della Svezia sono in corso di realizzazione due progetti che segnano un profondo cambiamento nella produzione di acciaio.
Lo scorso settembre abbiamo visitato gli stabilimenti che non prevedono l’utilizzo di fonti fossili: SSAB (progetto Hybrit) sta riconvertendo, H2 Green Steel sta costruendo ex novo.
Si tratta di una svolta che presuppone possibilità, capacità e contesto particolari. Esempi che giungono dall’Europa e che, idealmente sovrapposti sulla realtà di Taranto, imponevano una seria riflessione sulla loro eventuale e concreta fattibilità locale.
Analisi e dati alla mano ne abbiamo parlato diffusamente partendo dalla relazione dell’ingegnere ambientale Bartolomeo Lucarelli, anch’egli lo scorso settembre a confronto con i tecnici svedesi.
Ne è emersa una sintesi a tutti apparsa oggettiva, accompagnata da una serie di proposte da valutare e pianificare sul territorio ionico in termini di innovazione, diversificazione e concreta riconversione. L’impossibilità di replicare a Taranto il modello svedese di produzione di acciaio, in larga scala, utilizzando l’idrogeno, deriva dalla mancanza di fonti rinnovabili a sufficienza (aree limitate per gli impianti fotovoltaici ed eolici) fermo restando, inoltre, la disponibilità (tutta da valutare!) di acque sufficienti ad estrarre idrogeno.
Si dovrebbero avere a disposizione, ad esempio, circa 10 litri d’acqua per estrarre 1 kg di idrogeno. Inoltre, le attuali superfici disponibili consentirebbero di installare fonti rinnovabili sufficienti appena per il 5% della produzione degli impianti svedesi. Insomma, inutile girarci attorno. Ciò che si va realizzando in Svezia, a Taranto è impraticabile (alleghiamo slide esaustive ricche di analisi e dati).
E se da un lato la chiusura dello stabilimento Ilva di Taranto resta la vera strada per la salvezza del territorio e la tutela della Salute di operai e cittadini dell’intera provincia (non solo del capoluogo), dall’altro l’esigenza di puntare su piani alternativi di riconversione – alcuni dei quali già in campo, come le proposte TRI.0 e l’Hydrogen Park – si fa pressante e interroga tutti gli attori politici e istituzionali che ad oggi si rincorrono tra slogan e flash d’agenzia fini a se stessi.
A Taranto il dramma ambientale c’era, c’è e resterà gravemente irrisolto se Amministrazioni e Governo continueranno, ognuno a proprio modo, a dare contenuto vacuo ad un progetto vano chiamato “decarbonizzazione”. Io non mollo e da ecologista verde motiverò in tutte le sedi l’esigenza di chiudere il mostro d’acciaio. Indietro non si torna! Ringrazio intanto tutti i partecipanti all’incontro di sabato scorso per il contributo e per gli spunti offerti ad una questione che certo non si esaurisce oggi. Anzi… la battaglia per liberare Taranto continua!