Uno dei termini più inflazionati degli ultimi decenni è sicuramente quello di meritocrazia.
Un concetto negativo, in quanto in sé contiene il vocabolo -kratos, ossia “governo”, “dominio” del merito. Perché il termine è negativo? Se andiamo ad analizzare il linguaggio comune scopriremo che, tutto ciò che finisce con “crazia”, è una parola brutta, negativa, da evitare. Fallocrazia, per esempio, è il dominio dei maschi sul mondo femminile. Tecnocrazia è il dominio della tecnica sull’umanesimo e sulle scelte politiche (sfido chiunque a vedere di buon occhio i tecnocrati europei, che, per motivi di austerità, hanno affossato la Grecia). Burocrazia significa impantanamento nelle regole, predominio del rispetto di regole spesso incomprensibili a danno della speditezza dell’azione amministrativa a vantaggio dell’interesse pubblico.
E democrazia? Apparentemente è un termine positivo, avendo a che fare con il potere del popolo, ma in realtà, nel suo significato originario, aveva un’accezione dispregiativa (dittatura della maggioranza) e, secondo Aristotele, era una forma degenerata di governo.
Negli ultimi decenni il termine meritocrazia ha soppiantato quello di merito. Una scelta politica, non c’è che dire, e pertanto non priva di significato politico e pratico. Se è indubbio che il merito dev’essere premiato (nei concorsi pubblici, come quando devo scegliere un meccanico, preferisco quelli più capaci e meritevoli), è senz’altro importante capire che la meritocrazia non ha alcun merito. Perché si basa, appunto, sul dominio dei forti sui deboli, di chi ha i mezzi su chi non li ha, di chi parte da posizioni di vantaggio su chi parte in ultima posizione.
Il merito (in questo caso il termine è corretto) di Enrico Mauro nel suo ultimo libro Contro la società del sorpasso. Il pensiero antimeritocratico di don Tonino Bello (San Paolo, 2023) è stato quello di isolare il concetto di merito e distinguerlo nettamente da quello di meritocrazia. Operazione coraggiosa e difficile, quando un concetto è ormai radicato nel pensiero comune. Un ulteriore merito è stato quello di “dedurre”, nella certosina analisi degli abbondanti scritti di Don Tonino, la critica alla società della meritocrazia anche se don Tonino, quel termine, non l’ha mai utilizzato. Ma l’ha sempre criticato.
Parlando di materialismo, privatismo, rampantismo, egoismo, utilitarismo, edonismo, consumismo, individualismo (don Tonino arriva anche a citare Pasolini), Mauro riconduce tutto ad un termine che oggi rappresenta la loro sintesi: meritocrazia. Il dominio del solo contro tutti, del veloce (che sorpassa) contro i lenti; del potente (-kratos) contro i deboli. Il merito di Mauro, dunque, è stato quello di sintetizzare, semplificare (che non significa banalizzare) e interpretare un pensiero che, in nuce, rappresentava, trent’anni fa, le questioni irrisolte di oggi.
Don Tonino non era persona di mezzi termini e questo traspare dal libro di Mauro, il quale cita rilevanti passi delle lettere, delle omelie o delle interviste del prelato. Una mi ha colpito particolarmente. Si tratta di una riflessione del 1986, in cui don Tonino, parlando ai politici della Diocesi, non usa mezzi termini: “Vi siete ritirati nelle vostre torri d’avorio, non si sa bene se a meditare vendetta, o a ruminare sterili supplementi di analisi, o a contemplare dalle vostre aride specole i fasti di una dietrologia senza speranza (…). Siete latitanti dall’agorà. È più facile trovarvi nelle gallerie che nei luoghi dove si esprime l’impeto partecipativo che costruisce il futuro (…). Per scarnificare la storia di ieri, state abbandonando la cronaca di oggi che, senza di voi, è destinata a diventare solo cronaca nera. (…) Vi siete staccati dal popolo, così che, per la vostra diserzione, stanno cedendo nell’organismo dei poveri anche quelle difese immunologiche che li hanno preservati finora dalle più tragiche epidemie morali. (…) Vittime del privatismo, il male oscuro del secolo che voi per vocazione avreste dovuto debellare, avete abbandonato i laboratori della sintesi dove la poesia si mescola col giornale (…). E intanto la città muore. Col vostro nulla osta. La città benestante, consapevole dei suoi mezzi ma cieca nei suoi fini, corre verso un degrado di felicità mai conosciuto finora (…). [N]on posso chiudere gli occhi di fronte alle situazioni pesantissime di miseria, di disoccupazione, di violenza, di ingiustizia, di violazione dei diritti umani, di affossamento dei valori, di degenerazione della qualità della vita e di cento altri fenomeni patologici, di fronte ai quali viene chiamata in causa la vostra correità di intellettuali che, pur essendo vestali della luce e sentinelle della città, scorgete la barbarie andare in metastasi nel tessuto della nostra convivenza e continuate a stare zitti”.
Un monito forte, accorato, sincero, che Enrico Mauro trasferisce all’assonnata società di oggi, stimolando una riflessione circa le nostre colpe verso gli ultimi, dandoci la possibilità di fermarci a riflettere sulle derive della società meritocratica, per tentare di correggere il tiro, riparlare di solidarietà. Del resto è questo che fa un intellettuale.
Giovanni D’Elia