La malattia non è mai un dono. Perché non puoi amare chi ti fa piegare in due dal dolore, chi ti toglie il respiro, chi ti fiacca i muscoli dell’anima. Nelle forme più gravi l’angoscia è così forte che non riesci neppure a piangere. E con i capelli che cadono, allo specchio non sembri neanche tu. Però è proprio in quel momento, quando fatichi a ritrovarti e tutto ti sembra estraneo, che si gioca il tuo rapporto con la sofferenza, la decisione di diventarne schiavo o di allearti con lei, sapendo peraltro che cercherà di fregarti a ogni passo. La sfida passa per il riconoscersi in quell’estraneo che porta il tuo nome e cognome. «Com’è liberatorio essere sé stessi», ha detto Giovanni Allevi a Sanremo scoprendo la nuvola di ricci, ingrigiti dalle terapie, nascosta sotto un berretto. Lui il cammino dentro il buio più nero, il percorso di recupero del proprio cuore, l’ha percorso fino in fondo.
E allora la malattia è diventata un dono. O, meglio, il musicista ne ha imparato il vocabolario, ha scoperto che in fondo al pozzo della sofferenza il grido di maledizione poteva sfumarsi in dolore muto, fino a diventare un faticoso, e per questo nobilissimo, grazie. Gratitudine non per la sofferenza, ovvio, ma per l’opera di “pulizia”, di estetica dei sentimenti che ha realizzato in lui. Perché Allevi sa che anche se guarirà completamente, come gli auguriamo sperando che succeda in fretta, non tornerà quello di prima. Ora il respiro, sebbene faticoso, è più libero, e sono puliti gli occhi così da vedere il bello nascosto anche sotto una cappa di solitudine e abbandono. Gli esperti lo chiamano “riscoperta dell’essenziale” quando riesci a comprendere con chiarezza ciò che conta e cosa no. Noi che siamo semplici viandanti in cerca di senso, poveri mendicanti d’infinito, preferiamo considerarlo un bagno di umanità. Profonda, dura, spinosa e per questo magnifica. L’umanità di chi ti abbraccia perché sei una persona come lui, l’umanità di chi è pronto ad ascoltarti, l’umanità di chi ha la tua stessa ferita nel cuore e per questo sa trovare le parole giuste. L’umanità che si riassume nell’espressione umanissima del “prendersi cura”.
Sul palco dell’Ariston, Allevi ha raccontato gli uomini e le donne che l’hanno fatto con lui e li ha definiti doni. Sono i medici, gli infermieri e tutto il personale sanitario, sono i ricercatori scientifici, sono i malati e i loro parenti. Sono, soprattutto, i piccoli pazienti e i loro genitori. Ma, se li guardi bene, sono doni anche il cielo stellato, i capelli che ricrescono, e il rosso dell’aurora che è diverso dal rosso del tramonto. E poi i tasti del pianoforte, lo spartito, le dita che cercano il ritmo. Aveva gli occhi pieni di lacrime Allevi al festival, e le mani tremanti, ma forse non ha mai suonato così bene. Perché è andato al cuore della musica, quella che libera l’anima e la fa volare in alto, oltre la paura e il giudizio del mondo.
Un giorno ricordando il festival 2024, diremo che una sera anche la malattia ci è sembrata scuola di libertà. E che quella sera abbiamo capito che non serve molto per sentirsi amati. È sufficiente essere uomini e donne, persone e, se siamo credenti, creature. Tutti figli unici dello stesso Padre, che sa cambiare una melodia dolorosa in una sinfonia calda e consolante, come un umanissimo abbraccio d’amore.
Marcario Giacomo
Editorialista de Il Corriere Nazionale