Di scena ieri sera, al Teatro Fusco di Taranto, ‘Ubu Re’ di Alfred Jarry. Rappresentazione teatralmente grottesca delle pulsioni più turpi dell’essere umano.
Una scelta coraggiosa, quella di Antonio Minelli, regista poliedrico di una delle opere più difficili del nostro ‘900. Una scelta che, comunque, ieri sera ha convinto la platea tarantina, stupendola e inducendola alla riflessione. Ubu Re, infatti, più che un’invenzione grottescamente visionaria di Jarry, è lo specchio di un’umanità eternamente scossa da pulsioni irrefrenabili e, sovente, meschine.
Una scelta, dunque, che ha coinvolto il pubblico in un turbine di sensazioni contrastanti, grazie soprattutto alla bravura degli interpreti, veri talenti che hanno creato la scena, l’hanno vissuta, respirata, dando dimensione concreta ai vari personaggi.
Un plauso dunque alla compagnia teatrale Satyrion, già nota alle platee nazionali e insignita di numerosi riconoscimenti.
Una storia nella storia
La vicenda, vagamente ispirata al Macbeth shakespiriano, in realtà rappresenta la perenne ambizione al potere. Un potere assoluto che implica l’asservimento dell’uomo a quella ferinità che uccide l’etica, l’equilibrio, la moderazione.
Una storia che assurdamente crea la storia stessa, popolata da fantasmi che assumono una dimensione corporea proprio grazie alle proprie irrefrenabili pulsioni. Demoni terribili di un’umanità che non conosce l’altro, non ama, se non apparentemente, in virtù del proprio interesse.
Padre Ubu, essere ripugnante, ingordo, affamato in misura insanabile di potere, coadiuvato dalla feroce moglie, madre Ubu, uccide Venceslao, re di Polonia e ne usurpa il trono.
Tutto avviene durante un banchetto, in un susseguirsi frenetico di azioni sceniche grottesche, quasi farsesche, come sa esserlo la vita. Muoiono i nobili, ma il figlio del re viene risparmiato e sarà lui a cercare vendetta.
Una vendetta che porterà alla guerra.
L’Epilogo
In questa serie di uccisioni, di ingorde e scellerate passioni, di istintualità animalesche, lo spettatore viene coinvolto in un turbine di situazioni paradossalmente vere, attuali, crudelmente reali.
Ed anche l’epilogo vede il trionfo del male. Ubu e la moglie, infatti, la fanno franca, in barba alle storie ammansiteci da un certo tipo di letteratura che legge nelle vicende umane un percorso fuorviante che culmina nel trionfo del bene.
Ogni spettatore si specchia, alla luce anche della nostra quotidianità, in uno specchio vuoto reso concreto da se stesso. Vero attore, vero interprete del proprio vivere.
E i personaggi, marionette mosse in maniera disarticolata dai fili sottili della vita, acquisiscono una loro, talvolta macabra, concretezza.
L’Ubu Re di Minelli
Attento ai valori simbolici e ai contenuti più reconditamente beffardi di questa saga scomoda dei vizi umani, Antonio Minelli, figura straordinaria del panorama teatrale italiano, ieri sera, col suo Ubu Re ha entusiasmato gli spettatori, trascinandoli nel vortice di un teatro dinamico. Estremamente suggestivo.
Le movenze disarticolate degli straordinari attori sono state ancor più plasticamente definite da un cromatismo mutevole, ma intenso e, spesso, evocativo. Le luci infatti, unitamente ai quadri scenici creati dagli interpreti, sono state perfettamente adeguate alle pulsioni del momento.
E il turbine, il caos degli istinti più reconditi, più irrefrenabili, celati agli altri e talvolta ignoti a noi, ieri sera ha acquisito la sua concretezza.
Il valore di questa rappresentazione
Al di là di questa scelta coraggiosa di rappresentare un’opera che stupì la platea francese nel lontano 1896, suscitando l’ira di tutti, Minelli ha trasmesso, in linea con l’opera originale, un monito significativo, scevro dalle usuali retoriche pseudo etiche. E il grottesco ha assunto un valore simbolico. Così l’assurdo è divenuto lo specchio di questa umanità tanto alla deriva.