«Che tutti gli eretici siano scomunicati e anatemizzati e, una volta condannati dalla Chiesa, abbandonati al giudice secolare per subire il meritato castigo»
(Gregorio IX )
Una vera e propria crociata contro l’eresia ebbe il suo incipit sotto il pontificato di Gregorio IX, negli gli anni che intercorsero tra il 1227 ed il 1234.
Il Tribunale dell’Inquisizione vede un primitivo abbozzo sin dal Concilio di Verona del 1184 – presieduto da Papa Lucio III e Federico Barbarossa – in occasione del quale fu costituita la cosiddetta “Bolla di Ruscigli” allo scopo di combattere l’eresia; la disposizione in essa contenuta – sconosciuta al diritto romano – prevedeva la possibilità di essere accusati di eresia e, dunque, di subire un processo anche in assenza di prove tangibili o testimoni.
Questa disposizione trovò, successivamente, conferma durante il Concilio Lateranense IV del 1215 mediante il quale si istituirono le procedure d’ufficio utili a contrastare la minaccia ai danni della Chiesa.
Nel 1252, con la bolla “Ad Extirpanda” vi fu l’approvazione pontificia del mezzo della tortura al fine di “estirpare” i movimenti eretici; comparendo come un giudice quasi straordinario, il Tribunale dell’Inquisizione doveva punire con toni severi la magia, l’astrologia, il paganesimo, gli adoratori del Diavolo ed i funzionari ecclesiastici che si erano macchiati di reati che risultavano incompatibili con la loro carica.
Nel 1235 gli esponenti degli ordini monacali – dapprima domenicani e, successivamente, i francescani – ebbero il compito di contenere la minaccia dell’eresia: moltissimi furono gli uomini e le donne – le quali erano in numero maggiore rispetto ai primi – accusate di adorare il demonio e di praticare arti occulte che si contrapponevano ai dogmi di fede imposti da una Chiesa che con coercizione imponeva il rispetto dei dogmi di fede, quali verità assolute.
Del termine “inquisizione” vi è la prima traccia negli atti emessi dal Concilio di Tolosa tenutosi nel 1229 in Francia, durante il quale, al tavolo intorno ove sedevano gli ecumenici si discusse per cercare un modo per fermare l’emorragia dell’eresia.
Con la bolla pontificia “Summis desiderantes affectibus” – promulgata il 5 dicembre 1484 da Papa Innocenzo VIII – iniziò la soppressione dell’eresia e della stregoneria nella Valle del Reno; ma fu solo tre anni dopo, nel 1487, che vide la luce il “libro sacro della repressione della stregoneria” redatto a opera di due monaci domenicani tedeschi: Jacob Sprenger e Heinrich Kramer; l’opera, denominata “Malleus Maleficarum”, conosciuto anche come “Martello delle Streghe, fu ritenuto uno dei testi più autorevoli.
Questo manuale-guida per inquisitori non fu mai adottato ufficialmente dall’istituzione ecclesiastica ma neppure inserito nell’Indice dei Libri Proibiti.
Con il precoce diffondersi dei saperi e delle conoscenze – grazie al supporto della stampa apportata nell’esperienza europea dal tipografo Johannes Gutenberg – si fece strada il timore che teorie “nuove” e razionali inibissero e screditassero le concezioni dogmatiche imposte nei secoli della cosiddetta “età di mezzo” dalla Chiesa romana.
L’autorità del potere temporale sulla cultura si andò rafforzando sempre più e la sua attuazione trovò sostegno nella bolla pontificia “Inter Sollicitudines” emanata il 4 maggio 1515, a seguito del V Concilio Lateranense, e che prevedeva l’esercizio dell’ Imprimatur: essa constava nella facoltà dell’ente ecclesiastico di concedere il nulla osta alla stampa all’autore o all’editore, su richiesta di quest’ultimo.
Sebbene la bolla “Licet ab Initio” (1542) non conferisse alla congregazione di competenza il potere di censura, questa si arrogò il controllo della stampa attuando perquisizioni nelle biblioteche dei conventi, dei monasteri e delle abitazioni private e sottoponendo a requisizione i libri ritenuti “immorali”.
Tra i libri censurati dall’autorità ecclesiastica non mancarono diverse edizioni della Bibbia, con particolar riguardo a quelle scritte in volgare, nonché opere note tra le quali si annoverano il De Monarchia di Dante Alighieri, alcune edizioni del Decameron di Giovanni Boccaccio, molteplici opere di Niccolò Macchiavelli ed altri testi filosofici, scientifici o, più in generale, contenenti nozioni di magia cerimoniale, alchimia ed esoterismo;
la censura fu dunque attuata per quelle produzioni scritte che si rivelavano essere in disarmonia con i principi accettati e divulgati quasi coercitivamente dal Sant’ Uffizio.
Secondo alcuni studi effettuati storiografici, particolarmente consistente fu il patrimonio librario bruciato per volere delle congregazioni delle circoscrizioni territoriali della Penisola e dell’ Inquisizione; questo fenomeno non lasciò esclusa nessuna area geografica:
tra il 1556-67 il vescovo di Giovinazzo, Giovanni V (Briziano della Ribera) a proposito dell’istruzione decretò che il docente di grammatica “svolgesse le sue lezioni astenendosi, come stabilito dal concilio di Trento, dall’uso di libri proibiti o sospesi o da altri libri lascivi che potessero corrompere la morale dei giovani”.
Decreti e bolle di analogo contenuto son state emanate ad Otranto ove, nel 1630, l’arcivescovo affermò le sue intenzioni di sanzionare tutti coloro che, rivestendo cariche ufficiali quali giudice e doganiere, avrebbero permesso lo sbarco di manoscritti o libri rilegati ritenuti “proibiti”.
Non differente risultò essere la corrente di pensiero del vescovo di Lecce, Luigi Pappacoda il quale – imponendosi nel panorama culturale locale – nel 1660 dispose la prigionia per coloro i quali avessero mostrato interesse per i libri di medicina, astronomia, astrologia, agricoltura e arte della navigazione; fu altresì vietato ai tipografi di inserire immagini che potessero essere ritenute contrarie all’ordine pubblico ed al buon costume del tempo.
Tra i testi censurati e messi al rogo non fu risparmiata l’opera «Lemegeton Clavicula Salomonis», grimorio diviso in cinque parti e rinominato “Piccola Chiave di Salomone“, che costò una scomunica allo studente di medicina originario di Ruvo, Giovanni Andrea Rosello, trovato in possesso del libro.
“Osare alla conoscenza” – in un’epoca in cui il Sant’Uffizio deteneva il controllo culturale – significava dunque incorrere nel pericolo di sanzioni erogate dal tribunale civile ed ecclesiastico.