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Rosmini e la sfida educativa oggi

Markus Krienke

Il 1° luglio 1855 morì a Stresa, in presenza del suo amico Alessandro Manzoni, uno degli intellettuali italiani più importanti dell’Ottocento: nato a Rovereto nel 1797 sotto l’Imperatore asburgico, Antonio Rosmini era un patriota italiano e vedeva nel Risorgimento un’espressione della provvidenza divina in quanto costituiva anche per gli italiani l’occasione di darsi una costituzione – di struttura federale – a garanzia dei diritti fondamentali e del riconoscimento della persona. In altre parole, dopo la Rivoluzione francese i popoli europei vivevano l’opportunità di costituirsi come società civili basate su libertà, uguaglianza e rispetto del singolo, e proprio per questo andava difesa contro la tendenza – insita nelle stesse libertà moderne – di erodere lo stesso fondamento morale che alla fine le garantiva: Rosmini, infatti, era preoccupato delle possibili derive nichiliste del materialismo e dell’individualismo che iniziavano a caratterizzare le società europee. Esse distruggevano i legami sociali che erano i luoghi dove si realizzava il riconoscimento incondizionato di ogni persona.

In questa prospettiva, anche nelle società libere moderne il «dispotismo», termine rosminiano per indicare le strumentalizzazioni dei cittadini e le imposizioni autoritarie, resta ancora un rischio contro il quale solo un’evoluta cultura pubblica e politica possono costituire un argine efficace. Che cosa significa ciò, lo vediamo in tutti quei fenomeni che oggi ci fanno temere per la perdita della “qualità democratica” delle nostre società: i fenomeni di “cancel culture” non nascono da un’estremizzazione della “tolleranza” diventata “intollerante”? “Populismo” e “moralismo” non sono termini che indicano una politica basata sulla polarizzazione anziché sull’inclusione del politicamente altro? La “democrazia illiberale” non è essa stessa un termine molto pericoloso? E se parliamo del “capitalismo della sorveglianza” non è che abbiamo già tradito l’idea del “libero mercato”? I nuovi media non contribuiscono effettivamente alla creazione di “bolle sociali” nelle quali ci muoviamo perdendo sempre di più la capacità di confrontarci con chi ha opinioni opposte?

Proprio per questo Rosmini riteneva che l’educazione avrebbe rappresentato uno dei temi centrali per la modernità: essa avrebbe dovuto essere, come spesso ripeteva, «religiosa», non nel senso dell’obbligatorietà dell’ora di religione, ma in quanto indirizzata ad ancorare saldamente l’individuo ai valori della persona derivanti, per il Roveretano,  dal cristianesimo. E se era convinto che «solo de’ grandi uomini possono formare degli altri grandi uomini», allora si comprende quanto era importante per lui una condizione socio-politica a favore della realizzazione della persona.

Un messaggio culturalmente forte per una società come la nostra caratterizzata da sembianze sempre più trans- o postumanistiche, dove il rapporto con l’altro sembra perdere rapidamente di importanza e contano sempre di più solo l’esperienza propria, l’immergersi nel mondo virtuale dei dati e un materialismo universale in cui tutto appare interscambiabile con un valore economico o con dati informatici. Secondo il filosofo Byung-Chul Han abbiamo raggiunto un livello di «commercializzazione e mercificazione totale della cultura» che «provoca la distruzione della comunità» e l’«espulsione dell’altro». Le istituzioni della nostra società – dal diritto al mercato, dalla costituzione ai sistemi sociali, dalla famiglia alla scuola ecc. – non sono più vissute come luoghi della relazione, di una cultura della persona e della comune realizzazione delle nostre libertà, ma vengono accettate solo nella misura in cui servono alla realizzazione individuale di ciascuno. Ecco perché nella nostra società non solo le istituzioni stesse non sono più educative, ma difficilmente emergono «grandi uomini» e donne in grado di formarne altrettanti. Sta fondamentalmente qui, infatti, la dimensione nichilistica o “postumana” della nostra cultura.

In questo senso, la “trasformazione digitale” della società a causa della rapida evoluzione dell’utilizzo delle nuove tecnologie accelera o causa un cambiamento strutturale della società da una società di “massa” – come era caratteristica del periodo industriale – a una di “sciame” di una molteplicità di individui sempre meno capaci di realizzare le relazioni sociali e creare una società civile, in quanto finiscono di rispecchiarsi narcisisticamente negli “specchi” delle tecnologie digitali. Di fronte a tale tendenza, il sistema educativo non rende più i giovani in grado di confrontarsi con gli altri e la realtà.

Quello che bisogna trasmettere alle nuove generazioni, secondo Rosmini, è la capacità di riconoscere la realtà e di orientare le proprie scelte e azioni all’idea di realizzare innanzitutto questo riconoscimento. Rendere giustizia alla realtà e all’altro, senza ridurli a ciò che si rispecchia nei social media, rappresenta il messaggio etico che Rosmini suggerirebbe a noi oggi. Sta qui, secondo il filosofo dell’800, anche il presupposto per poter amare, cioè per poter essere veramente umano: l’amore, infatti, consiste fondamentalmente in questo riconoscimento dell’altro. In tale prospettiva, ripensare la proposta educativa di Rosmini è di massima attualità: solo un’educazione al riconoscimento dell’altro può salvare la dimensione umana della nostra società e contribuire a realizzare quella «amicizia sociale» di cui parla anche Papa Francesco.

ph www.oclarim.com.mo/

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