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One life

Fine anni ‘30. In Europa e nel mondo sta per abbattersi la peste bellica del secondo conflitto mondiale. Le vite stanno per cambiare, anche e soprattutto quelle di migliaia di bambini, cellule vitali per la sopravvivenza di intere Nazioni. E’ questo lo scenario in cui si muove One life, un film diretto da James Hawes, alle prese con il suo primo lungometraggio, tratto dalla biografia If It’s Not Impossible… The Life of Sir Nicholas Winton, scritta da sua figlia Barbara.

Nicholas Winton è un ragazzo di 29 anni, agente di borsa inglese, che, seduto nella sua comoda vita dalla carriera annunciata, balza in piedi  di fronte al pericolo di una totale estirpazione delle radici generazionali di quei popoli cosparsi del veleno della propaganda nazista. Insieme ad un gruppo di volontari, sarà il braccio armato del progetto messo in atto dal governo britannico denominato Kindertranspost, con cui si consentirà il trasferimento di migliaia di bambini dai territori di Germania, Austria, Danzica e Cecoslovacchia, oramai nel mirino dell’onda nera.

Nei suoi primi giorni a Praga, Nicholas vaga per le strade della città, stampando su un rullino e nella sua memoria i sorrisi di bambini allietati dal cioccolato, i volti smarriti di anime innocenti cresciute troppo in fretta rispetto ad un corpicino legittimamente fragile, e gli occhi angosciati di genitori a cui viene strappato il diritto di essere tali. Con la complicità di sua madre Babette (Helena Bonham Carter – The Crown, Ocean’s 8 – Suffragette) ed alla sua irriverente capacità di varcare i vuoti di una burocrazia troppo colma,  quelle immagini diventeranno nomi, una lista di nomi, una pergamena declamante l’annunciazione della loro (ri) nascita.

Dietro  la macchina da presa c’è James Hawes  alle prese con il suo primo lungometraggio cinematografico, dopo una carriera spesa alla realizzazione di progetti per il piccolo schermo, tra cui alcuni episodi di Doctor Who e di Black Mirror. Il regista sceglie uno schema meta-storico, il flusso cronologico è una storia nella storia, affidando il racconto ad un Nicholas tra passato e presente, interpretato rispettivamente da Johnny Flynn (The Outfit, Ripley) ed Anthony Hopkins. Una traslazione anagrafica che però sarà accomunata dalla caparbietà nel voler portare avanti la propria battaglia, sui campi di guerra prima e su quelli della memoria poi.

Il film rientra nella oramai lunga sezione dedicata all’Olocausto, ed Hawes affida a Nicholas il compito di riaprire una pagina di storia che rischiava di rimanere chiusa in una stanza piena di oggetti raccolti qua e là, come se ognuno di essi avesse una sua dignità comunicativa. Ma tra questi, più di tutti, un album in cui sono raccolti articoli, foto e ricordi a cui è il momento di dar respiro per poter parlare ad un mondo che corre, troppo distratto, e che rischia di inciampare…ancora e ancora…

Ed è così che mentre il passato logora il suo senso di colpa per non aver potuto fare abbastanza, il presente allevia il suo animo mai placato, dimostrandogli quanto sia riuscito a cambiare – anzi creare – un futuro, che possa colmare le pagine bianche del suo album.       

Il progetto cinematografico è ambizioso, faticoso, appesantito dal dramma storico ed umano, che richiede spalle forti per tenere in piedi una regia che ne possa sostenere il carico.  Purtroppo però l’azione scorre su acque superficiali, con scarsa profondità narrativa, non concedendo il tempo di scendere in profondità e sedimentare, quasi come a dover rispettare dei canoni televisivi.  Raramente si riesce ad entrare in empatia con i protagonisti di questa storica impresa individuale dagli effetti collettivi, se non attraverso lo sguardo catalizzante di un deflagrante Hopkins. Gli elementi collaterali – ma non per questo secondari – che premono al di fuori della cornice commemorativa, come le dinamiche geopolitiche in cui ci si muove, una più approfondita caratterizzazione dei personaggi che ne faccia comprendere la taratura intima,  vengono accantonati, per far spazio ad una semplice cronologia di eventi condensati in uno schema troppo ristretto, che invece richiederebbe diverse vie d’accesso per permettere allo spettatore di entrare e di avere il tempo di indignarsi. Un tempo necessario, di rispetto. Come quello che invece il regista dedica all’impresa personale di Nicholas nella fase finale del film, dove il suo tonfo emozionale fa abbastanza rumore da riuscire a sentirlo, riuscendo a partecipare al suo abbandono alla gratitudine.

Un film che nella sua didascalia è un’opportunità di conoscenza, di presa di coscienza dell’assenza di confini umani, dove Una vita può valerne mille, dichiarando la sua immortalità.

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