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Past Lives

Buona la prima per Celine Song che fa il suo esordio come regista e sceneggiatrice con Past Lives, film candidato agli Oscar 2024 come miglior film e miglior sceneggiatura, uscito nelle sale italiane il 14 febbraio, attribuendogli indebitamente il marchio di classico film di San Valentino.

La scena di apertura vede due uomini ed una donna seduti al bancone di un bar di Manhattan, disposti secondo un ordine non casuale. Non sappiamo chi siano, né tantomeno di cosa parlino. Assistiamo solo a scambi di parole silenziose, volti nostalgici dai silenzi rumorosi e menti presenti ma debitrici di passato e dubbiose di futuro. Tre personaggi che si ritrovano insieme perché erano, e sono, vicini e distanti. Il rapporto che li tiene insieme è figlio del tempo.

24 anni prima. Siamo a Seul. Na Young (Moon Seung-ah) e Hae Sung (Seung Min Yim) sono due bambini, amici e compagni di scuola, intrisi di una complicità già adulta. Il filo che li unisce viene interrotto quando la famiglia di Na Young decide di trasferirsi in Canada. Scorrono altri 12 anni durante i quali è chiaro chi dei due abbia scelto l’onda per navigare e chi la riva per aspettare. Na Young ora ha un nuovo nome,  lavora a New York come autrice e parla una nuova lingua; Hae Sung è rimasto a Seul e studia ingegneria. Un pensiero rimasto nell’ombra per tutti questi anni li fa ritrovare. Questa volta la loro connessione è virale, ma comunque sufficiente per contagiare il loro reale, tanto da rischiare di diventare epidemica. I due, per prevenire la totale reciproca contaminazione, decidono di interrompersi…Ma il ricordo incubato per anni si rimanifesta quando lui decide di visitare New York e dare finalmente una forma all’”in sospeso”. Sono di nuovo in un unico cerchio che li centrifuga in un vortice di vite passate… non vissute… immaginate. Vite mai nate.

I loro occhi rimangono fissi sull’altro quasi che fatichino a voltarsi, gli abbracci si riempiono, ed il loro linguaggio è un’eco che arriva fino a quei due bambini rimasti in Corea. La loro è una chimica senza  formula,  sono atomi dello stesso segno che si respingono di fronte al confutabile: il tempo, che non scolpisce solo vite passate, ma ne modella di presenti.

Past Lives è un film a portata di visione: dialoghi fluidi, inquadrature eloquenti ed una fotografia di una New York vestita con il suo miglior vestito grazie alla mano del direttore della fotografia Shabier Kirchner e dalla scenografa Grace Yun; aspetti verso cui possiamo scegliere di fermarci oppure decidere di continuare a guardare anche dopo i titoli di coda, per girare l’obiettivo su di noi. Ognuno di loro trascina dei sottotitoli, come quelli che la regista sceglie per preservare l’autenticità del suono di una lingua, qui simbolo di un processo di trasformazione, che accomuna e separa.

Un film che indaga un sentimento privo di definizione perché mai uguale a se stesso: i suoi contorni  interrotti lasciano passare sensazioni nutrite da organi diversi, tempi diversi, io diversi.  Un film a cui va tolta la pelle esterna, la più facile da vedere, per riuscire a invece a guardare il flusso di sangue, di pensieri e di vita che gli scorre dentro.

La regista sceglie attraverso la chiave del romantic movie, ci esorta ad un atto di onestà verso noi stessi, cercando di dare il vero nome a sensazioni che spesso traduciamo con parole dall’effetto placebo per non ascoltare un malessere strisciante, quando si rischia di confondere la nostalgia con il rammarico, di traslare il ricordo e riconvertirlo in presente, elaborando possibili scenari di una vita lasciata invece immobile. Il contatto con chi eravamo è necessario, correndo il rischio di definirci colpevoli di scelte oramai esaurite, ma è il circuito elettrico che tiene in moto il nostro cerchio.

Celin Song, spinta anche da un’onda autobiografica, ci accompagna con garbo in questo viaggio, attraverso personaggi raffinati e costruiti di lenta gentilezza, senza creare ruoli a cui far affezionare lo spettatore, scadendo in una love story dove ci si sfida a duello per contendersi la stessa donna. Che poi stessa donna non è.  E’ un film dove l’In-yun, la forza cosmica tra anime destinate a toccarsi, e l’autodeterminazione riescono a coesistere, sintesi abilmente affidata alla sequenza finale del film attraverso un movimento palindromo della macchina da presa.

Accompagnare con dolcezza ciò che siamo stati, guardarlo negli occhi, accogliendolo, per poi voltarci e dare valore ad ogni nuovo passo, perché “Se si lascia qualcosa, si guadagna anche qualcosa”.

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