Principale Rubriche Interviste & Opinioni Quando l’Università aiuta a relazionarsi!

Quando l’Università aiuta a relazionarsi!

Dario Patruno

Il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari nell’ambito del Dottorato di ricerca in Diritti, Istituzioni e Garanzie nelle società in transizione, coordinato dal prof. Alessandro Torre, ha ospitato il Prof. Markus Krienke   professore ordinario di Filosofia moderna ed Etica sociale presso la Facoltà di Teologia di Lugano e Direttore della Cattedra Rosmini.

I due seminari il 18 ottobre in una full immertion con la sapiente regia del prof. Nicola Neri, docente di Relazioni internazionali, sono stati incentrati su due temi attualissimi e complessi quali “ Antropologia dell’emigrazione e cittadinanza” e a seguire “Economia sociale, ambientale e di mercato e sviluppo sostenibile”.

I trenta studiosi presenti, tra cui ricercatori e dottorandi, cultori delle materie giuridiche, filosofiche e sociologiche, hanno ascoltato in un silenzio irreale questa straordinaria performance in un italiano perfetto, sorprendente per uno studioso di madre lingua tedesca. 

A margine dei seminari baresi, che hanno espresso anche un dibattito di approfondimento alla fine delle relazioni molto discorsive, accattivanti e attrattive, il docente ha accettato di rispondere ad alcune domande.

  • Caro Professore, converrà che i fenomeni migratori non nascono pochi anni fa, ma possiamo dire sono sempre esistiti. Esistono chiavi interpretative per leggerli e arginarli nel rispetto delle persone coinvolte?

Sebbene siano sempre esistiti, in Europa sono diventati un fattore politico solo da due o tre decenni: a partire dalle guerre sui Balcani e nel Caucaso dopo il crollo del blocco sovietico, ma poi soprattutto con la destabilizzazione del Medio Oriente con le guerre nell’Iraq (2003) e in Siria (2011), e alla fine per il ventennio di guerra in Afghanistan, si sono intensificati i flussi migratori verso l’Europa con numeri costantemente intorno a un milione e mezzo all’anno (fonte: United Nations, Department of Economic and Social Affairs). In questo modo, gli immigrati non corrispondono più ad un reale bisogno dei mercati di lavoro europei (in passato il lavoro era il principale mezzo di integrazione), e mancano sempre di più quelle competenze professionali e linguistiche che facilitavano la loro integrazione. Anche il fatto che una grande parte dell’immigrazione risulta da matrimoni contratti o per motivi di riunificazione familiare, non facilita l’integrazione. Ora, per dimostrare alle popolazioni di aver in mano la padronanza della situazione, molti governi hanno sensibilmente ristretto le proprie politiche, però spesso senza idee politiche costruttive. Arginare il fenomeno nel rispetto della dignità umana significherebbe, innanzitutto, desistere dai cosiddetti “pushback” – anche se hanno maggiore efficacia simbolica – e garantire il diritto a presentare la domanda di asilo. Esercitare il controllo tramite il diritto non lede infatti la dignità dell’altro, ma per le difficoltà politiche di organizzare l’effettivo rimpatrio nel caso di richieste negate (causa mancanza di collaborazione da parte degli Stati terzi), tale strada non viene inseguita dagli Stati europei. Una maggiore collaborazione con i Paesi a riguardo, che includerebbe anche un aumento degli aiuti concreti di sviluppo e maggiore collaborazione, è in tal senso l’unica – sebbene faticosa – strada possibile.

  • Cosa significa “cittadinanza inclusiva” nella prospettiva di aiutare a rendere le persone più consapevoli di diritti e doveri?

Esattamente questo è il termine per quello che ho appena detto: chi arriva ha il diritto a un trattamento dignitoso, e ciò aveva inteso già Kant – di cui ricordiamo quest’anno il 300° della nascita – con il “diritto cosmopolitico”, una sorta di anticipazione dei diritti universali, che oggi, infatti, affermano che «ogni individuo ha diritto a una cittadinanza». Il motivo, secondo lui, è che la terra è una sfera – e da ciò risultano effettivamente due conseguenze: prima il fatto che non appena qualcuno si muove, per forza deve poi stare da qualche parte e ha il diritto di essere accolto; secondo che l’“umanità” esprime la consapevolezza che la terra è patria di tutti e che nessuno può “scappare” di fronte ai problemi e conflitti. Da ciò segue il “diritto all’ospitalità” – «il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro» – che per Kant ovviamente non significa anche un diritto a restare: ciò dipende, così il filosofo, da ulteriori condizioni, proprio per poter garantire a tutti i cittadini uguale considerazione e inclusione, ed è questo infatti il suo ideale di una “repubblica”. Ogni chiusura identitaria della cittadinanza lede tale grande idea di Kant perché la distacca dal senso dell’umanità. Ed è proprio quest’ultimo che secondo lui segna la dignità morale della cittadinanza.

  • Siamo condizionati dalla paura del futuro e non riusciamo a vivere con consapevolezza il presente. I fattori ambientali possono essere una chiave di lettura credibile?

In effetti si parla molto dell’“eco-ansia” in questi tempi, cioè la paura di catastrofi naturali: i giovani che massimamente esprimono questo disagio psicologico sentono inoltre la mancanza di “giustizia intergenerazionale” ossia del diritto delle future generazioni alle medesime condizioni per la libera autorealizzazione. Ciò significa, però, che la mancanza di consapevolezza del presente non è causata solo dalla paura ma anche dal rifiuto o dall’incapacità – saranno tutti e due – di affrontare tale sfida inedita per l’umanità con i giusti “mezzi” (che sarebbero: politiche, istituzioni, comportamenti individuali, assunzione di responsabilità). Acquisire più consapevolezza significherebbe comprendere che i problemi ambientali sono l’altra faccia dei problemi sociali che pertanto non andrebbero “esternalizzati” dalle dinamiche del mercato. Quando molti chiedono oggi un nuovo “contratto sociale”, cioè un ripensare i principi della nostra convivenza, allora intendono giustamente che dobbiamo trovare nuovi equilibri politico-economico-sociali in cui si trova inclusa la dimensione ambientale. In altre parole, anziché leggere la sfida ambientale con paura, bisogna trasformarla in uno dei volani che portano alla visione di un futuro nuovo.

  • Il mercato condiziona i comportamenti dei poteri forti e le scelte politiche anche dei singoli. Come poter essere autonomi e liberi?

Questo è un punto che mi sta particolarmente a cuore: i cambiamenti appena accennati non si realizzano “contro” il mercato ma solo “con” esso. E il mercato non è l’unico “condizionamento” dei nostri comportamenti, mentre l’altro è la politica degli Stati. Ora, secondo una mentalità diffusa sono i “mercati globali”, e con essi i ricchi del mondo, ad essere maggiormente responsabili per la crisi climatica per cui molti attivisti tendono a ciò che viene chiamato – a volte con fierezza, ma più spesso con sottotono polemico – “socialismo climatico”. Bisogna però considerare che il mercato, dove funziona, è sempre stato uno strumento di liberazione, consapevolizzazione e crescita di una popolazione, e che siamo noi esseri umani che decidiamo – tramite la politica – che cosa vogliamo che viene “commerciato” in esso. L’ambiente e le responsabilità delle imprese, specialmente dei global players, devono stare decisamente più al centro delle dinamiche economiche, ed è proprio ciò che quest’ultimi – tramite mezzi contrari al libero funzionamento di esso – cercano di evitare. D’altronde, senza una politica all’altezza, capace di rendere il tema dell’ambiente una preoccupazione trasversale di tutti, e di realizzare regole efficaci per il mercato, quest’ultimo difficilmente produrrà esiti “virtuosi”. Starei dunque attento che nel facile colpevolizzare i “mercati”, si perde di vista di chiamare alla responsabilità chi davvero deve maggiormente assumersela. Alla fine, dunque, il problema diventa politico.

 

Francamente siamo positivamente sorpresi e ammirati di questa sapienza con cui l’Università offre opportunità che dovrebbero essere conosciute e moltiplicate perché la cultura possa essere fattore di crescita personale e collettiva. Prosit!

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