Principale Arte, Cultura & Società Contro la malinconia dell’esistenza: a 300 anni dalla nascita di Kant

Contro la malinconia dell’esistenza: a 300 anni dalla nascita di Kant

Markus Krienke

Se Kant fosse nato 300 anni dopo, oggi il 22 aprile 2024, che cosa direbbe di noi, a noi? Lamenterebbe la perdita di rigore morale e della capacità di autodeterminarsi non per propri interessi ma per la libertà e l’umanità? Ci direbbe che i nostri sistemi politici sono troppo poco garanti della pace? Oppure analizzerebbe che nelle nostre società in cui la politica e l’economia vengono sempre più travolte da imperativi di efficienza, trattiamo l’uomo e la donna sempre meno come “fini” e sempre più come “mezzi”?

Probabilmente, Kant scriverebbe anche di tutto questo. Ma forse un tratto della nostra società gli balzerebbe particolarmente agli occhi: la malinconia dell’esistenza. Il malinconico, per lui, ha perso la “passione per l’umanità”, si potrebbe dire, ma non per spirito di negazione o intenzione di ingannare gli altri, perché sempre si conserva l’«alto sentimento per la dignità della natura umana». Il malinconico lo capovolge, però, in misantropia e si perde nella noia: non osa più “essere umano davvero” perché non sa più in che cosa questo possa consistere. In altre parole, la malinconia della nostra società risiede nel “vivere come se l’umanità non esistesse”, e nella consapevolezza di averla persa. È il ridurre tutto a “uno vale uno” che si esprime in un clima di “grande disillusione”, come in un recente rapporto Censis (del 2022) viene descritta la nuova malinconia degli italiani.

Già, “essere umani” per Kant ha a che fare con l’osare, a partire dall’avvalersi della ragione fino alla realizzazione dei valori umani. «Sapere aude» è il suo grande motto con cui intende motivare l’uomo moderno a realizzare un futuro di umanesimo civile. Mentre vede il motivo della malinconia nella convinzione – filosoficamente da smentire – che tra la “natura” ossia la realtà e il “regno della libertà” esiste un abisso incolmabile. Per colpa di questo abisso, non crediamo di essere in grado di realizzare la libertà nel e attraverso il mondo, perché già per “pigrizia della ragione” non troviamo il modo come farlo. In questo modo, non si fanno le esperienze veramente umane che passano attraverso la coltivazione della ragione e della morale alla quale l’arte, il bello e il senso per l’incondizionato o Dio possono dare un aiuto notevole. Al contrario, se 300 anni dopo la nascita del grande filosofo di Königsberg osserviamo come l’“abbattimento delle bastioni” della ragione e della morale avviene nelle nostre società da troppo tempo, possiamo comprendere meglio i perché della malinconia diffusa – senza dimenticare che la malinconia secondo lui porta alla “disperazione”.

Un tratto della malinconia è il pensare solo attraverso degli “schemi”, e tale tendenza – in qualche modo insita nell’umanità in tutti i tempi – è il primo sintomo che non osiamo avvalerci della nostra ragione. Gli schemi, infatti, li assumiamo passivamente: dalle autorità, dai pregiudizi, dalle abitudini. Oggi il nostro pensiero viene “schematizzato” sempre di più dagli algoritmi e dal paradigma della tecnica. Il problema, in tutto ciò, non sono gli “schemi” di per sé, ma quando si sostituiscono completamente a quell’originalità che la dimensione personale e morale dell’umanità ha sempre rivendicato contro di essi.

In un mondo malinconico, i profeti – quelli che possono indicare uno sguardo verso il futuro e perciò trasmettere speranza – non possono esistere. Spinoza ha perfettamente compreso questo rischio della modernità, incluso l’ulteriore pericolo che essi rinascono come demagoghi. E forse una società malinconica si fa molto più facilmente ammagliare da essi. Al contrario, il superamento della malinconia si accende solo con la speranza di poter formare il mondo verso il meglio. E certamente per Kant anche la riscoperta della religiosità – non in senso confessionale “di Chiesa”, ma come consapevolezza morale che nel mondo si realizza un “senso” o una “finalità” – fa parte di questa impresa. E il messaggio positivo della modernità è che tutti gli uomini e le donne sono chiamati a essere i “nuovi profeti”, contribuendo alla scoperta e alla realizzazione dei motivi per cui l’umanità deve avere speranza. Per Kant questi significati si esprimono quando osiamo pensare ed agire “senza interesse soggettivo”, cioè proponendo un modo di pensare che ai nostri contemporanei è diventato  estraneo.

Leggendo la sua estetica (nella Critica del Giudizio), possiamo comprendere che oggi abbiamo strumentalizzato persino l’arte – che è diventata “espressione del genio artistico”, da un lato, e “valore economico”, dall’altro. Inoltre siamo convinti che il “gusto” è qualcosa di totalmente soggettivo e, in fondo, “banale”. Non è questo il segno più evidente che non ci aspettiamo più nessuna “genialità” dall’umanità – quella genialità di ogni essere umano che si esprime nella bellezza della realizzazione della sua libertà? Dove resta questa bellezza se l’unico nostro narrativo è diventato la tecnologia? L’appello “illuministico” di Kant oggi affermerebbe che l’uso della ragione liberi i nostri rapporti sociali dall’imperativo di essere efficienti e che essi devono “servire”, per dare nuovamente spazio al bello e all’altruismo. In questo modo, non ci sorprende il fatto che una grande filosofa del ’900 come Hannah Arendt poteva leggere l’estetica di Kant nella prospettiva di riscoprire la dimensione più autentica – perché razionale e morale – della politica.

La domanda non è, oggi, se dobbiamo avere paura della tecnica, dell’IA o di ChatGPT, ma su quali questioni della vita queste tecnologie devono acquisire potere decisionale. E ciò implica, appunto, di riscoprire l’importanza di una civiltà umanistica, democratica e “generativa” di umanità. Secondo Kant, solo se recuperiamo a latere della tecnologia la passione per l’umanità e la meraviglia della sua libertà – che è capacità di moralità – riusciamo a superare la malinconia. Siamo, quindi, noi, grazie al nostro potere di pensare che la tecnologia non realizzerà le finalità tipicamente umane, a porre ad essa il suo limite. E ciò non significa porre limiti alla tecnologia (impresa impossibile ed inutile), ma comprendere che è essa stessa a spingerci oggi in senso positivo alla ricerca dell’originalità umana.

ph www.iisf.it/

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